mercoledì 1 marzo 2023

Devo sapere di aver fatto almeno una cosa giusta nella mia vita!




Recensione redatta da Valerkis

Si avvicina la premiazione degli Oscar di questo 2023 e tra i vari candidati abbiamo il film in questione, diretto da un nome che è già conosciuto a tutti per i suoi precedenti e faccio solo alcuni nomi come “The Wrestler” e “Il Cigno Nero”. Sto parlando di Darren Aronofsky.

Candidature di “The Whale” agli Academy Awards: miglior attore protagonista per Brendan Fraser; migliore attrice non protagonista per Hong Chau e miglior trucco. Secondo me, sono state ben assegnate? Andiamo con ordine.

Trama: Charlie (interpretato da Brendan Fraser) è un docente universitario e lavora da casa, a causa del suo aspetto fisico e della sua depressione che ha sconvolto la sua vita. La sua amica Liz (interpretata da Hong Chau) è un’infermiera che viene ad aiutarlo ogni giorno nelle faccende di casa e riesce a sopportarlo nelle sue decisioni improponibili. Per poi arrivare a Ellie (interpretata da Sadie Sink), sua figlia, che si ritrovano dopo anni e tutto voluto da Charlie, per cercare di riaprire un rapporto padre-figlia considerato frammentato in tutti i sensi. C’è un altro personaggio ancora, ovvero Thomas (interpretato da Ty Simpkins), un missionario della chiesa “New Life” che conosce e incontra spesso Charlie per cercare di aiutarlo a superare le sue difficoltà.

È un film che dalle primissime scene comincia a lasciarti dei segni indelebili dentro e credo che il potere della regia di Aronofsky sia proprio questo. Se fosse così, ci è riuscito. La sceneggiatura più che teatrale, si nota attraverso la vivacità dei dialoghi e dei personaggi a livello comportamentale, oltre all’ambientazione che rimane identica per il 95% del film. L’espressività degli attori è decisamente notevole: Brendan Fraser strabiliante nella sua interpretazione e spero si meriti il premio che gli spetta, perché è stata, la sua interpretazione, veramente commovente proprio per il motivo che al di là del suo mestiere, il suo personaggio vive una realtà tragica e cupa, dove l’unica valvola di sfogo che possiede si chiama cibo; Hong Chau ha interpretato un personaggio con un carattere determinato ma alla fine si fa un po’ lasciare dalla rassegnazione, nonostante anche lei si lamenta con il mondo a causa della realtà che vive quotidianamente; Sadie Sink ha interpretato un personaggio più determinato della Chau e proprio perché doveva interpretare un’adolescente doveva mostrare quel carattere alterato del periodo naturale che vive e per la realtà che ha vissuto e vive ancora nel corso della storia. Per quanto riguarda Ty Simpkins, ha interpretato un personaggio facile e difficile al tempo stesso, perché è il classico tipo ingannevole all’apparenza ma comunque attivo nei dialoghi e nel contesto in cui si ritrova.

Tra regia e sceneggiatura c’è da subito una sintonia ben definita e sostenibile, azzeccata insomma e nel mezzo fanno la loro “sporca figura” anche fotografia (firmata da Matthew Libatique, per intenderci ha firmato la fotografia di film come “Iron Man”, “A Star is born”, “Il Cigno Nero” e “Venom”) e colonna sonora (firmata da Rob Simonsen, decisamente emozionante che nonostante sembrasse quella di un film d’azione, accompagna decisamente quelle situazioni di pieno disagio esteriore e interiore).

Tornando alla sceneggiatura, avrei due punti “difettosi” su cui soffermarmi: il primo è quando all’inizio per rappresentare lo stato clinico molto grave del protagonista, a mio parere, si è mostrata una situazione tantino esagerata; il secondo riguarda il primo approccio all’interno della storia con la figlia, cioè non si comprende precisamente se l’ha veramente contattata oppure è venuta lei di sua spontanea volontà a trovare il padre, perché magari glielo ha detto la madre (a proposito c’è anche lei tra i personaggi della storia, ma a mio parere non è stata eccessivamente rilevante). Non è errato il primo approccio con la figlia, ma un po’ contorto ecco!

Nonostante ciò, è un film che va visto una volta per provare tante emozioni insieme (tristezza, disagio, rassegnazione, ricordi…) e Aronofsky in questo è riuscito alla grande e concludo con l’analisi della sceneggiatura, dicendo che il finale è decisamente bellissimo nonostante si trovasse appeso ad un filo che una minima sbavatura avrebbe rovinato tutto il prodotto finale, a mio parere. Questo non è successo e menomale! La domanda che vi porrete sicuramente è la seguente (io compreso me la sono posta): “Perché il film si intitola “The Whale”?”. Vi risponderei pure…ma poi non sarete più curiosi di vederlo. Posso solo dirvi che fa riferimento ad una metafora ben delineata.

In questo film, o meglio in questa vicenda, c’è un riferimento sulla religione, che a mio parere è stato gestito né con delicatezza ma nemmeno con tanta esagerazione. Un dialogo discutibile ma non credo scandaloso, comunque apprezzato per rendere la vicenda riflessiva su più aspetti oltre che sulla condizione psico-fisica del protagonista.

In conclusione…vi prego facciamo che Fraser vinca l’Oscar, non togliendo nulla a nessuno, per carità!

2 commenti:

  1. Grazie di non aver spoilerato troppo, mi ha incuriosito la tua recendione lo vedrò sicuramente!

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  2. Grazie per l'apprezzamento!

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