sabato 25 marzo 2023

Due giorni soli per conoscerli!




Recensione redatta da Valerkis

Giancarlo De Cataldo, il nome che vi ho appena fatto, è l'ideatore di questo soggetto che in confronto a due storie come quelle di “Suburra” e di “Romanzo Criminale” (sempre scritte da lui) sembra una storia stesa da persone alle prime armi nell’ambito della sceneggiatura. De Cataldo insieme a Roberto Jannone e Claudio Amendola hanno scritto la sceneggiatura in una maniera inaspettata e nella modalità più avversa immaginabile. Insomma voglio dire da subito l'idea poteva essere accettabile, ma per com’è stata prodotta non ha funzionato. Partiamo con calma.

Quattro protagonisti: Luigi (interpretato da Claudio Amendola), Donato (interpretato da Luca Argentero), Rossana (interpretata da Valentina Bellè), Angelo (interpretato da Giacomo Ferrara) vengono lasciati liberi per due giorni dal carcere. Ognuno torna per due giorni a vivere la propria vita, chi in un modo chi in un altro. 

Intanto vi dico che il montaggio ha reso la storia ancora più inspiegabile, su certi aspetti ed è stato anche un po’ strano vedere, ad esempio, un Luca Argentero interpretare un personaggio trucido, cattivo e spietato. Nonostante lo apprezzi per parti decisamente migliori di queste, non è nelle sue corde interpretare questi personaggi e comunque non è riuscito a trasmettermi il suo trucido carattere, secondo me. Valentina Bellè e Giacomo Ferrara sono stati, devo dire, abbastanza azzeccati (forse gli unici di tutta la storia), perché la prima tende ad avere un carattere delineato ed elettrizzante per definirsi un personaggio fuori dalle regole, ma nonostante ciò non è riuscita a nascondere la sua sensibilità. Forse, infine, non era neanche una tale da definirsi così “criminale”. L’altro personaggio invece ha già avuto a che fare con parti del genere e quindi ha pienamente intrapreso la faccia da “malandrino di quartiere” (spero che Spadino vi dica qualcosa!). Poi così giovane è stato più credibile con il linguaggio volgare usato spesso, anche con i suoi compagni di merende e di impicci (nel mezzo vorrei nominare il migliore, secondo me, è stato il personaggio interpretato da Andrea Carpenzano. Bravo ragazzo!). Per ultimo mi sono tenuto il buon Claudio Amendola, direttore e interprete (e scrittore per collaborazione) di questa vicenda. Credibile o non, riesce ad interpretare personaggi pesanti e con delle vite travolte da fattori criminali e di degrado. Lasciando da parte “I Cesaroni” e i film dei fratelli Vanzina, riesce ad interpretare queste parti grazie anche al fatto che la sua carriera è stata segnata soprattutto da film di genere polizieschi e drammatici di crimini. In questo caso, il suo stile recitativo può essere considerato accettabile, ma non ho trovato un’enfasi assoluta, piena e sensata, quasi forzata e poi non è stato un personaggio rilevante e imponente come doveva mostrarsi. 

E allora cosa vorrei dire in tutto ciò di questo film? Prendete la descrizione personale che ho appena fatto nei confronti del personaggio di Amendola e  ponetela come mio pensiero inerente a questo film che ho appena recensito.


martedì 14 marzo 2023

Pubblicata questa recensione, il primo concessionario FIAT che trovo mi noleggio una “Panda Rossa”


Recensione redatta da Valerkis

Quando mi capita di parlare di cinema con i miei amici, alcuni su certi film mi mettono un’attesa addosso mai percepita in tutta la mia vita. Quest’attesa viene chiamata “hype” tramite il gergo anglosassone giovanile della generazione Z. Un mio amico appassionato di film Disney-Pixar mi ha trasmesso un certo “hype” nel marzo 2022, proprio per questo film. Nei discorsi mi diceva che lo aspettava con ansia e non vedeva l’ora che uscisse. Ce lo siamo visti il giorno d’uscita sulla piattaforma "Disney+" e…i messaggi scambiati sono stati di questo genere: “Il periodo storico è azzeccato”, “Se fosse stato un film anime?”, “Mi è piaciuto come è stata affrontata la tematica della pubertà attraverso questa figura del panda rosso”, “In effetti la regista ha raccontata come le famiglie orientali trattano i propri figli…”. 

Messaggi di questo genere cosa hanno determinato in tutto ciò (per me), allora partiamo dalla vicenda. Anno 2002, siamo a Toronto, in Canada e la protagonista Meilin “Mei” Lee è una tredicenne di origini cinesi che vive in occidente e si considera una ragazza ambiziosa e i suoi obiettivi riguardano lo studio, dedicare il suo (limitato) tempo con le sue amiche del cuore ma soprattutto dedicare il suo tempo alla famiglia. Per carità tutto giusto, la famiglia va sempre onorata, lo dicono persino “I dieci comandamenti” (Onora il padre e la madre), perché sono degli imprenditori che investono sui figli (ma ciò non accade per tutti, purtroppo). Il film esordisce infatti con le varie motivazioni perché la famiglia non andrebbe trascurata e appunto onorata e poi Mei parte all’attacco con le sue ambizioni e passioni. Sembra tutto ok fino a qua, ma quando una mattina si ritrova trasformata in un “panda rosso” si accorge di ciò che le sta accadendo: è entrata nel pieno dell’adolescenza (emozioni svariate, incomprensioni/litigi con i genitori e amici, i primi amori, ma soprattutto, per le ragazze, c’è anche il problema del famoso ciclo mestruale e tanto altro…). Controllando le emozioni, si può riuscire a controllare questo panda che prende il sopravvento in Mei, o meno. Però in fondo, questo panda rosso paffuto in cui si trasforma va visto come un difetto, o come una virtù?

Domee Shi, in casa Pixar è un nome ormai importante per la sua mano da animatrice grazie a lavori in film come “Inside Out”, “Il Viaggio di Arlo” e “Toy Story 4”. In questo film viene ricalcata pienamente la sua regia orientale con la CGI, attraverso lo stile “anime” e questo mi ha colpito notevolmente perché ha rispecchiato il famoso detto: “Non dimenticarti da dove vieni!”. Negli altri film (in qualità di animatrice) si è dovuta adeguare all’animazione occidentale e quindi ha tenuto nascosto il suo stile di provenienza, per poi farsi conoscere meglio con il cortometraggio “Bao” vincitore del Premio Oscar come miglior corto animato nel 2019 (se avete visto “Gli incredibili 2” al cinema, vi avranno fatto vedere sicuramente questo documentario, altrimenti tra "Disney+" e "YouTube", lo potete rivedere senza alcun problema. Bellissimo ed emozionante!). Con quel cortometraggio è riuscita a farci capire in tredici minuti, chi fosse come regista, ma “Red” (o “Turning Red”) è la sua storia (più o meno). Certo non è che si trasformava in un gigantesco panda rosso quando era tredicenne, però il periodo adolescenziale in sé è riuscita a raccontarlo in questa storia con dei contenuti notevoli, come notevole è stato tutto il lavoro che c’è stato dietro (periodo lockdown incluso) e tutto visto e sentito dalle parole di Domee Shi attraverso il backstage pubblicato sempre sulla piattaforma online di Topolino. Domee Shi ha rappresentato tutto ciò che si potesse raccontare, dalle discussioni con i genitori alle sue ambizioni, ma soprattutto a rappresentare “l’ideologia della famiglia orientale” che ovviamente non apprezzano il pensiero e i modi occidentali, anche al punto di mettersi un po’ sul piedistallo ed elevarsi credendosi i migliori (forse questo aspetto è stato anche esagerato ma in fondo è sempre stato così. Me lo sento, sicuramente se una famiglia orientale mi vedesse in casa con la mia famiglia, mi direbbero che sono viziato. Cosa che non sono in realtà, ma questo sarebbe un altro discorso!). 

È una bella storia, mi piace come viene rappresentata la metafora della pubertà attraverso la figura del “panda rosso” considerata astratta e concreta al tempo stesso e del periodo adolescenziale in sé, creando un personaggio ambizioso, nervoso e curioso di scoprire cosa c’è nella vita oltre alla famiglia, lo studio e gli amici. Così ho voluto descrivere il personaggio della protagonista. Poi, le sue amiche del cuore: Miriam, Priya, Abby sono le classiche persone che riescono ad esserti vicine nei momenti di difficoltà e a comportarsi di norma sia nei momenti di rottura altrettanto in quelli di unione. Questa è l’amicizia e queste sono amiche. I genitori? La madre, Ming è tradizionalista nei canoni della famiglia orientale, ma perché ha vissuto nella maniera più tradizionale possibile e vivendo con la convinzione di essere stata “un fallimento” e così manifestare la sua frustrazione nei confronti della figlia per il suo bene ma si mostra come una persona debole, da un’apparente madre autorevole.  

Però una cosa la vorrei dire: non vorrei che questo film vada troppo acclamato, altrimenti si sopravvaluta troppo, come se fosse l’unico film sulla faccia del pianeta che tratta la tematica dell’adolescenza. Se volete, c’è un elenco di film del genere, o meglio c’è proprio una categoria, un sottogenere del genere drammatico, chiamato “dramma adolescenziale”. Per carità ho detto che mi è piaciuto e continuo a ripeterlo, perché Domee Shi ha diretto un film ricco di riferimenti, compreso del periodo storico ambientato ovvero il 2002, anno caratterizzato dal “Tamagotchi”, dai telefoni cellulari con i suoi squilletti, le boy/girl-band che fecero impazzire un’intera generazione (pensate ai vari “Backstreet Boys”, “Destiny’s Child”, “Spice Girls” e così via) e come il mezzo di diffusione ai tempi era ancora la televisione, quando oggi i “social-network” danno una pista a tutte le tipologie di scambio di informazioni. In molti film, il periodo storico specificato può risultare inutile, ma qui ha dato da sfondo a questa storia oltre al fatto che sarà stata l’epoca vissuta dalla regista e sceneggiatrice di “Red”. Vi dico anche una nozione stupidissima, permettetemi: forse ho capito perché tocca chiamarlo “Turning Red” e non semplicemente “Red”, perché non è l’unico film che si chiama così (ad esempio c’è quello con Bruce Willis). 

Altro da dire? Forse ho detto anche troppo di quello che solitamente ho da dire. Ora vado a noleggiare una Fiat Panda rossa e girerò per Roma ascoltando ad alto volume “Nobody Like U” dei 4Town (la band idolo dei personaggi di questa storia). Mamma mia, e se mi fermassero? Di conseguenza vedrò la mia patente frantumarsi in mille pezzetti.



Trovatemi le differenze?


P.S. Evidentemente le immagini non saranno tutte vicine per problematiche inerenti alla grafica di Blogger, che nonostante provassi ad accorciare le immagini me le dà sempre nello stato che vedete! Devo ancora capire come funziona tutto quanto!

 


venerdì 10 marzo 2023

Giocare con l'Alzheimer in un film d’azione...forse non è abbastanza!



Recensione redatta da Valerkis

Liam Neeson torna nel suo classico ruolo da uomo con l’arma da fuoco in mano e sinceramente non ho mai visto un film dove è stato interprete, forse solo un paio (molto probabilmente questo: “Unknown – Senza identità” e mi ricordo di una piccola parte in "The Next Three Days" di Paul Haggis) e quindi sarò costretto a giudicare la sua modalità d’interpretazione solo per il film che ho visto.

Martin Campbell è un regista a me noto per film come “Goldeneye”, “Casino Royale” e “The Foreigner” ovviamente apprezzati, per gli stili “Bond movie” nei primi due e per l’action-suspense nell’altro (neanche tanto rilevante, ma sarà un’altra recensione quella). Come è andata qui? Eh…andiamo con ordine dicendo al volo la trama.

Alex Lewis (interpretato da Liam Neeson) è un sicario che comincia a mostrare l’età che avanza e vorrebbe smettere con il suo lavoro, perché si rende conto di avere qualche problema di memoria (un possibile caso di Alzheimer). Ovviamente è difficile lasciare, sei ben pagato, dopo anni che sai gestire le armi da fuoco puoi dire che tutto questo è un gioco da ragazzi. Però quando lo incaricheranno per uccidere una ragazzina, comincerà a ricercare tutti i possibili soggetti coinvolti nella commissione. Dall'altra parte scattano delle indagini e l’agente Vincent Serra (interpretato da Guy Pearce) si occuperà del caso. Un personaggio che cerca di fare bene il suo lavoro e sarà accompagnato da altri due personaggi, gli aiutanti, Linda (interpretata da Taj Atwal) e Hugo (interpretato da Harold Torres). Ma soprattutto c’è colei che gestirà
tutto questo giro, alquanto inquietante, ovvero Davana (interpretata da Monica Bellucci).

Ci sarebbe altro da dire tra personaggi (perché sono tanti) e dettagli, ma era meglio citare i punti della trama e i personaggi più importanti ed essenziali da sapere. La sceneggiatura non è nuova (dato che si tratta di un remake di un film belga “The Memory of a Killer” diretto da Erik Van Looy), quindi è stata curata da Dario Scardapane, sceneggiatore americano che ha curato sceneggiature di un paio di film e un paio di serie tv, di cui una prodotta Netflix che si chiama “The Punisher”. Prima di arrivare a definire questo film, citiamo fotografia e musica per un istante: la prima (curata da David Tattersall) non è stata rilevante come in molti altri film ma ha dato sicuramente la sua parte, stessa cosa per la musica (curata da Photek). 

Da Martin Campbell mi aspettavo veramente tanto da questo film e invece non è avvenuto ciò che volevo, ovvero un film avvincente con dei colpi di scena pazzeschi e invece è risultato un film scontato, poco coinvolgente e con degli errori di sceneggiatura evidenti (quindi nota negativa anche per la sceneggiatura curata da Scardapane) rendendo quasi un film parodistico del genere “azione”. Da Liam Neeson mi aspettavo uno stile classico del genere e ci è riuscito, come anche gli altri attori hanno interpretato personaggi per nulla esagerati e coerenti nel genere, ma a causa della sceneggiatura sono risultati alla fine dei personaggi poco coinvolgenti che non mi hanno fatto scattare quel sentimento di tensione, anche minimo, per arrivare così allo scopo finale. Il ruolo di Davana, secondo me, non poteva essere affidato alla Bellucci perché é stata poco credibile nella sua malvagità e serietà e quindi, purtroppo, questo film poteva essere un potente colpo per rilanciare il genere d’azione commerciale, ma nulla da fare, non ha funzionato correttamente quella sintonia che ci doveva essere tra regia e sceneggiatura ed ecco che il prodotto finale non è stato così soddisfacente, al punto di riderci sopra e farmi due risate sulle assurdità riprese, perché in certe occasioni era meglio ridere che piangere (pensando al lato economico sia da parte dei produttori sia da parte degli spettatori, chiamati tecnicamente “consumatori”).

mercoledì 1 marzo 2023

Devo sapere di aver fatto almeno una cosa giusta nella mia vita!




Recensione redatta da Valerkis

Si avvicina la premiazione degli Oscar di questo 2023 e tra i vari candidati abbiamo il film in questione, diretto da un nome che è già conosciuto a tutti per i suoi precedenti e faccio solo alcuni nomi come “The Wrestler” e “Il Cigno Nero”. Sto parlando di Darren Aronofsky.

Candidature di “The Whale” agli Academy Awards: miglior attore protagonista per Brendan Fraser; migliore attrice non protagonista per Hong Chau e miglior trucco. Secondo me, sono state ben assegnate? Andiamo con ordine.

Trama: Charlie (interpretato da Brendan Fraser) è un docente universitario e lavora da casa, a causa del suo aspetto fisico e della sua depressione che ha sconvolto la sua vita. La sua amica Liz (interpretata da Hong Chau) è un’infermiera che viene ad aiutarlo ogni giorno nelle faccende di casa e riesce a sopportarlo nelle sue decisioni improponibili. Per poi arrivare a Ellie (interpretata da Sadie Sink), sua figlia, che si ritrovano dopo anni e tutto voluto da Charlie, per cercare di riaprire un rapporto padre-figlia considerato frammentato in tutti i sensi. C’è un altro personaggio ancora, ovvero Thomas (interpretato da Ty Simpkins), un missionario della chiesa “New Life” che conosce e incontra spesso Charlie per cercare di aiutarlo a superare le sue difficoltà.

È un film che dalle primissime scene comincia a lasciarti dei segni indelebili dentro e credo che il potere della regia di Aronofsky sia proprio questo. Se fosse così, ci è riuscito. La sceneggiatura più che teatrale, si nota attraverso la vivacità dei dialoghi e dei personaggi a livello comportamentale, oltre all’ambientazione che rimane identica per il 95% del film. L’espressività degli attori è decisamente notevole: Brendan Fraser strabiliante nella sua interpretazione e spero si meriti il premio che gli spetta, perché è stata, la sua interpretazione, veramente commovente proprio per il motivo che al di là del suo mestiere, il suo personaggio vive una realtà tragica e cupa, dove l’unica valvola di sfogo che possiede si chiama cibo; Hong Chau ha interpretato un personaggio con un carattere determinato ma alla fine si fa un po’ lasciare dalla rassegnazione, nonostante anche lei si lamenta con il mondo a causa della realtà che vive quotidianamente; Sadie Sink ha interpretato un personaggio più determinato della Chau e proprio perché doveva interpretare un’adolescente doveva mostrare quel carattere alterato del periodo naturale che vive e per la realtà che ha vissuto e vive ancora nel corso della storia. Per quanto riguarda Ty Simpkins, ha interpretato un personaggio facile e difficile al tempo stesso, perché è il classico tipo ingannevole all’apparenza ma comunque attivo nei dialoghi e nel contesto in cui si ritrova.

Tra regia e sceneggiatura c’è da subito una sintonia ben definita e sostenibile, azzeccata insomma e nel mezzo fanno la loro “sporca figura” anche fotografia (firmata da Matthew Libatique, per intenderci ha firmato la fotografia di film come “Iron Man”, “A Star is born”, “Il Cigno Nero” e “Venom”) e colonna sonora (firmata da Rob Simonsen, decisamente emozionante che nonostante sembrasse quella di un film d’azione, accompagna decisamente quelle situazioni di pieno disagio esteriore e interiore).

Tornando alla sceneggiatura, avrei due punti “difettosi” su cui soffermarmi: il primo è quando all’inizio per rappresentare lo stato clinico molto grave del protagonista, a mio parere, si è mostrata una situazione tantino esagerata; il secondo riguarda il primo approccio all’interno della storia con la figlia, cioè non si comprende precisamente se l’ha veramente contattata oppure è venuta lei di sua spontanea volontà a trovare il padre, perché magari glielo ha detto la madre (a proposito c’è anche lei tra i personaggi della storia, ma a mio parere non è stata eccessivamente rilevante). Non è errato il primo approccio con la figlia, ma un po’ contorto ecco!

Nonostante ciò, è un film che va visto una volta per provare tante emozioni insieme (tristezza, disagio, rassegnazione, ricordi…) e Aronofsky in questo è riuscito alla grande e concludo con l’analisi della sceneggiatura, dicendo che il finale è decisamente bellissimo nonostante si trovasse appeso ad un filo che una minima sbavatura avrebbe rovinato tutto il prodotto finale, a mio parere. Questo non è successo e menomale! La domanda che vi porrete sicuramente è la seguente (io compreso me la sono posta): “Perché il film si intitola “The Whale”?”. Vi risponderei pure…ma poi non sarete più curiosi di vederlo. Posso solo dirvi che fa riferimento ad una metafora ben delineata.

In questo film, o meglio in questa vicenda, c’è un riferimento sulla religione, che a mio parere è stato gestito né con delicatezza ma nemmeno con tanta esagerazione. Un dialogo discutibile ma non credo scandaloso, comunque apprezzato per rendere la vicenda riflessiva su più aspetti oltre che sulla condizione psico-fisica del protagonista.

In conclusione…vi prego facciamo che Fraser vinca l’Oscar, non togliendo nulla a nessuno, per carità!

  Care lettrici e cari lettori, come avete potuto notare, purtroppo, nemmeno in questo mese appena concluso sono riuscito a rimanere costant...