giovedì 25 aprile 2024

And I go back to…black


Recensione redatta da Valerkis

Stavo pensando che su questo blog dovremo affrontare più film che trattano di musica e del mondo che le appartiene. Credo attiri molte persone perché accomuna i gusti di tutti, o quasi. Avevamo parlato dei “Beatles” con Rickers e oggi posso affrontare l’argomento della musica attraverso la recensione di questo film, appena uscito nelle sale.

Non so se vale la pena spiegare al volo la trama, ma semplicemente è ambientato negli anni in cui a Londra e dintorni si affermò una nuova voce femminile, Amy Winehouse (Marisa Abela).  Aveva sicuramente i mezzi giusti per mostrarsi al pubblico, che l'hanno apprezzata sempre di più, lasciando un segno nella storia della musica britannica, internazionale e del genere a cui ha appartenuta, il jazz (come stili nominano anche il soul e il contemporary R&B). Inoltre, la protagonista nella sua vita ha incontrato ogni tipologia di persona, sia chi l’ha fatta soffrire, sia chi l’ha apprezzata per ogni sua tonalità e sia per chi ha puntato su di lei come artista, offrendole accordi e portandola in alto alle classifiche.

La regia mi ha stupito nel nome di Sam Taylor-Johnson (regista del film “Cinquanta sfumature di grigio”), proprio perché me la ricordavo nella sua mediocre esecuzione passata, cosa che non ho trovato qui. Non che sia eccezionale questo film, ma neanche è stato troppo superficiale. Sam Taylor-Johnson riesce a dirigere una vicenda che racchiude ogni tonalità del periodo di punta di Amy Winehouse, nel bene e nel male. La sceneggiatura, scritta da Matt Greenhalgh, non l’ho trovata troppo articolata e credo non era l’obiettivo del film raccontare la storia della Winehouse in maniera tale da annoiare lo spettatore, rendendo il tutto alquanto troppo ricco di dettagli, con il rischio di risultare probabilmente eccessivo. Sicuramente lo sceneggiatore ha dovuto scrivere qualcosa che garantiva piena responsabilità nel raccontare un personaggio che la stampa ha descritto in altra maniera, uscendo dal lato artistico ed entrando in quello personale. Questo film lo fa e racconta non solo i problemi principali che la protagonista ha avuto, ma anche delle perdite e dei momenti di disagio interiore, in cui si è ritrovata, incluse le ferite amorose che l'hanno condizionata completamente, ma dandole gli spunti per i suoi fenomenali testi. 

Ora, comprendo i gusti che ognuno di noi può avere sulla musica come sul cinema e non vorrei mischiare critica musicale con critica cinematografica. Io sono qui per recensire questo film e non aprire un dibattito sul jazz o su Amy Winehouse in sé. Ma una cosa è certa, nel suo breve periodo artistico ha segnato la storia di un genere e della musica internazionale e questo film lo esalta, come le varie tonalità della protagonista manifestate in ogni contesto. 

Tutto sommato è un film piacevole da vedere, ma nulla di troppo entusiasmante. Non è brutto, ma si poteva migliorare ancora soprattutto nel descrivere alcuni dettagli all'interno della vicenda e dal punto di vista della struttura scenica. Aldilà di ciò, magari avrei approfondito ancora di piú il lato artistico e ridotto qualcosa inerente il lato dove lei si autodistrugge. Nulla di particolarmente esagerato su quest’ultimo aspetto e lo reputo un pregio dal punto di vista registico, ma avrei lasciato da parte dei dettagli che forse potevano essere solamente accennati. Infine, risulta un buon lavoro firmato Sam Taylor-Johnson, con una Marisa Abeda che si conferma capace di reggere i panni di un personaggio imponente e con un carattere molto particolare come quello di Amy Winehouse. Spero sia un trampolino di lancio verso ulteriori interpretazioni di questo genere perché possa spingersi a migliorare ancora, come tutto il resto che ha determinato la struttura di un film comunque consigliato per conoscere una storia che non finisce bene (si sa) ma raccontando un personaggio che ha portato la cultura musicale di una nazione in alto e in pochissimo tempo.


sabato 20 aprile 2024

Gli esordi che mi piacciono!


Recensione redatta da Valerkis

Forse questo è uno di quei momenti del cinema italiano che non ci aspettavamo, ma di cui forse avevamo bisogno. Claudio Bisio, che all’età di 67 anni, diventa regista esordiente con un film che fa riflettere lo spettatore e gioca con sfumature lievi e tragiche di un periodo molto drammatico come quello del Fascismo e della Seconda Guerra Mondiale.

Il film racconta la vicenda di quattro bambini, quattro amici: Italo (Vincenzo Sebastiani), Cosimo (Alessio Di Domenicantonio), Vanda (Carlotta De Leonardis) e Riccardo (Lorenzo McGovern Zaini). Italo è figlio del Federale Barocci (Claudio Bisio), Cosimo è nipote di un lavoratore comune, Vanda è un’orfana che vive in un orfanotrofio delle suore, accompagnata nelle sue giornate da suor Agnese (Marianna Fontana) e poi c’è Riccardo, ebreo. Nonostante ciò riesce ad entrare nel gruppo dei suoi amici, risultando determinato e pronto alle sfide lanciate dal resto del gruppo e specificando come si possa considerare “ariano” nonostante il suo credo. Insieme trascorrono le loro giornate come solo un bambino può vivere una determinata realtà: nella piena semplicità con quel retrogusto amaro di tensione e preoccupazione. Quando Riccardo un giorno sparisce, i protagonisti partono per una missione che avrà come obiettivo la salvezza del loro amico e la determinazione del loro carattere e della loro forza che passa per ogni confine, sia regionale sia nell’incontrare ostacoli figurativi veri e propri. 

Esteticamente risulta un film semplice, sia come colonna sonora (curata da Pivio e Aldo De Scalzi) sia come fotografia (curata da Italo Petriccione) che sicuramente accompagnano nella giusta proporzione tutta quanta la vicenda. In questa recensione vorrei parlare più del film in sé che della sceneggiatura e della regia, quindi vorrei lasciare un parere generico e non troppo sull’analisi tecnica dell’esecuzione e della scrittura. Personalmente, è un film che mi ha coinvolto e colpito pienamente per essere una regia esordiente e secondo me l’età gioca tanto. Quando sei giovane, le “lacune dell’esordio” sono più rilevanti; più o meno nella mezz’età, avendo una determinata esperienza si possiede maggior conoscenza da trasmettere, che risalta maggiormente nella storia e quindi costituisce una vicenda solida e organica, nel suo complesso. Si ha maggior responsabilità in ciò che si vuole trasmettere. In questo caso si potrebbe pensare a lungometraggi che non risultano ben elaborati, invece è un film con una struttura equilibrata e anche se non risulta molto articolata e credo non rispecchia l’etica del lavoro compiuto da Bisio, riuscito ad esordire registicamente con un film che racconta la visione reale, da parte dei bambini, di un periodo storico turbolento, dove nonostante ciò, l’amicizia li ha uniti e li ha tenuti vivi. Le interpretazioni fatte dai protagonisti sono state ottime, in base al comportamento di ogni singolo personaggio e sono state in assoluto la colonna portante del film. Negli sguardi dei giovani attori, si intravedevano come erano pienamente convinti di quello che stavano facendo, grazie proprio a chi dietro la macchina da presa li ha completamente coinvolti nella visione da adottare, in una storia considerata lieve e turbolenta al suo tempo, come detto prima.

Sono contento che sia stato candidato ai David Giovani di quest’anno, perché significa che il messaggio alle nuove generazioni è arrivato. Confermo, il messaggio che questo film vuole lasciare arriva e con questo posso dire che Claudio Bisio esegue un ottimo esordio alla regia, imprimendo caratteri, sfide e rimembranze che non possiamo lasciare in secondo piano e i fattori che hanno caratterizzato il tutto sono stati i seguenti: amicizia, coraggio, inarrestabilità per ottenere ciò che volevano, ovvero essere ricordati per aiutare qualcuno a cui si tiene veramente, sacrificando molto e tutto.


giovedì 18 aprile 2024

Un emblema del Made in Italy



Recensione redatta da Valerkis

Conoscere un paese come l’Italia significa sapere ciò che abbiamo inventato, scoperto e costruito. Si parla tanto del famoso “Made In Italy”, che cercano di conservare e diffondere a livello internazionale e non solo per elementi come la pasta e la pizza.

Il mondo dei motori è anche italiano e immagino subito a chi starete pensando: alla Ferrari? Mi sembra ovvio. Se vi dicessi che oggi si parlerà del suo concorrente e avversario principale, dal punto di vista del mercato a cui appartengono? Proprio lui, Lamborghini.

Al volo con la trama: finita la Grande Guerra si ritorna in patria, precisamente a Cento, provincia di Ferrara (dista 53 km da Maranello, dove è localizzata la Ferrari) e conosciamo subito i due protagonisti, Matteo (interpretato da Matteo Leoni) e la mente di tutto quanto, Ferruccio Lamborghini (per la parte da giovane interpretata da Romano Reggiani e poi da Frank Grillo). Poi c’è la compagna dell’epoca di Ferruccio, Clelia Monti (interpretata da Hannah van der Westhuysen), aiutante morale e figura imponente per il protagonista, il padre Antonio (intepretato da Fortunato Cerlino) che lo aiutò assumendosi pienamente il rischio che c’era da incorrere e la successiva compagna di Ferruccio, Annita (per la parte da giovane interpretata da Chiara Primavesi e poi da Mira Sorvino). Dagli anni ’50 agli anni ’70 l’azienda di Ferruccio è diventata sempre più predominante nel mercato dei motori, passando dai trattori alle auto sportive vere e proprie, ottenendo una notorietà assoluta e diventando ciò per cui lo conosciamo oggi.

Non parliamo tanto dei personaggi in sé, ma quanto del film. Penso che se bisogna raccontare la storia di un personaggio come Ferruccio Lamborghini, bisognerebbe fare un film quasi perfetto e ben dettagliato nella ricerca e nella storia, perché anche “romanzare” troppo si rischia di sfumare quel pizzico di realtà che si vorrebbe conoscere. Sicuramente è stato un personaggio imponente del “Made in Italy” con i suoi modelli di auto e trattori, ma non è stato solo questo. 

La prima metà del film, mi ha coinvolto. A mio avviso non è uno splendore, quindi non vi aspettate chissà cosa, ma la prima parte è stata gradevole, interessante e comunque fa riflettere su alcuni aspetti di come intraprendere la vita, al costo di mettersi in pericolo o di sbagliare, cambiando e diventando quello per cui si era predisposti. La seconda parte ha praticamente rovinato tutto il prodotto ed è stato come quando costruisci una torre e levando il mattoncino portante crolla tutto. È stato fatto passare il messaggio che la Lamborghini, dopo la crisi energetica degli anni ’70, è stata decretata fallita e che la sua storia fosse finita lí, quando negli anni ’80 è stata ricomprata e gestita da soggetti terzi ed esterni alla famiglia Lamborghini, riportando il marchio attivamente sul mercato. Comunque avrei approfondito maggiormente l’aspetto inerente al “risollevamento” dell’azienda, perché è sicuramente importante per la sua storia e comunque è un marchio che rimane ancora oggi presente e conosciuto in tutto il globo. Invece hanno preferito far vedere che Ferruccio ha mollato tutto per dedicarsi alla cura di sé, o meglio come si dice “ritirato a vita privata”. 

Peccato per questo finale immotivato e quasi senza senso, perché poteva essere un film degno di raccontare una storia tutta italiana che ha visto dei momenti floridi e dei momenti bui. Ma questa è la vita, purtroppo, non va sempre come noi vorremmo che andasse. Il film è riuscito a trasmetterlo questo, ma ho apprezzato anche come Ferruccio era un creativo e un personaggio motivato a restare attivo sul mercato, proponendo dei modelli che sono diventati storici. Chissà nell’aldilà cosa stará combinando! Forse starà  gareggiando con una delle sue opere! Gli attori potevano spingersi di più a trasmettere la propria storia e così addentrarsi maggiormente nella parte e farci capire che di banale non doveva esserci nulla. Sono state interpretazioni decenti, ma non particolarmente impegnate, secondo me.

Fotografia ben riuscita quella di Blasco Giurato e sia la regia sia la sceneggiatura (tratta dal libro scritto dal figlio di Ferruccio, Tonino) sono risultate molto semplici (film diretto da Bobby Moresco). Sia la regia sia la sceneggiatura potevano essere più dettagliate e il problema si poteva risolvere semplicemente credendoci di più del dovuto in questa storia, comunque sceneggiata discretamente fino alla seconda metà, risultata senza senso e con la fretta di finire di raccontare questa vicenda che ha segnato l’emblema del “Made in Italy” e in particolare interessante agli amanti dei motori.


P.S.: anch’io confermo che la Miura è una bestia!


Sitografia:https://www.museolamborghini.com/it/la-storia/#storia7


  Care lettrici e cari lettori, come avete potuto notare, purtroppo, nemmeno in questo mese appena concluso sono riuscito a rimanere costant...