domenica 24 dicembre 2023

Buon Natale!


Recensione redatta da Valerkis

Quest’anno per il post di Natale vorrei proporre il film che ha dato inizio alla serie tutta italiana dei cosiddetti “cinepanettoni”. Quest’anno sono passati 40 anni dall'indimenticabile “Vacanze di Natale” firmato dai fratelli Vanzina.

La trama, in sintesi: quattro famiglie si incontrano nelle varie vicende ambientate nella splendida atmosfera di Cortina d’Ampezzo. Ci sono i Covelli, i Marchetti, i Braghetti e l’unico e indimenticabile Billo. Le vicende si costituiscono proprio per l’atmosfera natalizia positiva e negativa che in ogni famiglia riveste, tirando fuori così i propri stereotipi e vizi. Ovviamente non tralasciando la comicità delle varie successioni di fatti. 

Passiamo ai personaggi e alle rispettive interpretazioni: partirei con il personaggio principale di tutto quanto, a mio parere, che è Billo (interpretato da Jerry Calà). Ogni anno viene a Cortina per lavorare al piano bar del locale “Vip Club” con l’obiettivo di “conquistare” qualche ragazza che gli girava intorno. “Non sono bello, piaccio!” diceva. Comunque credo sia un personaggio unico nello stile che solo uno come Jerry Calà riesce a fare. Poi passiamo ai Covelli: parliamo di Luca (Marco Urbinati) e Roberto (Christian De Sica). Il primo è affezionato alla squadra di calcio della “Magica Roma” e il secondo è preso dalle proprie ansie portandosi con sé la bellissima Samantha (Karina Huff). La Huff è stata semplice e affascinante nella sua interpretazione. Tra i due fratelli, De Sica ha avuto decisamente una marcia superiore. Sempre nei Covelli, c’è da sottolineare la modesta e immensa interpretazione di Riccardo Garrone nei panni dell’avvocato Giovanni Covelli, padre di Luca e Roberto, preso dal fatto che deve sopportare l’esigente moglie (Rossella Como) e liberandosi alla fine con una frase che scommetto molti penseranno realmente: “Anche questo Natale, se lo semo levato [...]”. Poi c’è Mario Marchetti (Claudio Amendola), figlio di Arturo (Mario Brega), sorpreso nel trovare Luca, appunto, starà sempre con lui preso da colpi di fulmine e imbarazzi dato il diverso contesto sociale in cui si ritrova, avendo a che fare soprattutto con Serenella (Antonella Interlenghi), perché lo prende di mira data la sua evidente gelosia. Poi infine ci sono il “Dogui”, nome d’arte di Guido Nicheli e una bellissima Stefania Sandrelli. “Alboreto is nothing!”, “See you later!”, “Sole, whisky e sei in pole position!” sono solo alcune delle celebri frasi dette e improvvisate da Dogui in questo film. La sua sporca figura è riuscita a farla benissimo, determinando un’icona, come la sua, storica della commedia italiana di quegli anni. La Sandrelli è decisamente influenzata da vari accadimenti e imprevisti, ma elegante nella sua bellezza e nel suo ruolo.

Quindi, in generale, come sono stati gli attori? Non ci sono interpretazioni superficiali, ma giuste e comunque parliamo sempre di un film che non vuole condividere degli insegnamenti, ma solo analizzare comicamente una società, come quella italiana degli anni ’80, nei loro atteggiamenti durante le vacanze natalizie in un luogo come Cortina, passando da un contesto sociale all’altro. Poi, per me, i personaggi più iconici, perché più rilevanti, penso di averli citati e comunque ribadisco: Jerry Calà e il “Dogui”. Non togliendo nulla agli altri!

Carlo ed Enrico Vanzina hanno scritto una sceneggiatura semplice e delineata per ciò che dovevano raccontare e la regia di Carlo è stata giusta nella commedia comica a cui ho assistito. L’intento è stato sicuramente quello di raccontare una vicenda allegra e in questo gli sceneggiatori sono riusciti assolutamente! Ma non tralasciano da parte anche l’aspetto negativo di una società che assume sempre più sfaccettature viziate, di pregiudizio, di imitazioni e di invidia. I fratelli Vanzina scrivono una sceneggiatura che si concentrano nel trovare quel “click” che fa scattare la risata al pubblico. Ovviamente è stato un campione d’incasso, data la maggior rilevanza del pubblico nelle sale e dalla comicità delle situazioni rappresentate, anche grazie alla composizione del cast. In fondo, i De Laurentiis come produttori hanno fatto un buon investimento dal punto di vista commerciale e del contenuto. Infine vorrei sottolineare la ricca colonna sonora che accompagna le vicende, da “Vita Spericolata” di Vasco Rossi ad “Ancora” di Eduardo De Crescenzo per arrivare ad alcune delle canzoni che accennavano il bel periodo della dance anni ’80 e ’90 e per arrivare alla famosa “Maracaibo”.

Rivolgo un messaggio ai miei coetanei: non sto sopravvalutando il film, ma vi invito a vederlo e a confrontarlo con altri che avete visto più attuali. Non c’è paragone! L’unicità di questo film, per il suo genere, è imbattibile, partendo dal cast da cui è composto e a tutto il resto raccontato come doveva. Qualcuno direbbe che con questo si percepiva il benessere del periodo e magari avranno ragione, ma penso sia contestabile questo aspetto. So già cosa mi dirà qualcuno: “Ma che ne sanno i 2000?”. È vero, che ne so io degli anni ’80, però non sembra cambiato molto l’italiano da quel periodo. Comunque fregatevene dei dettagli, vedetevelo! Rideteci su e vi posso solo augurare un Felice Natale!


giovedì 21 dicembre 2023

Non ho percepito a fondo il cuore del “Cavallino Rampante”


Recensione redatta da Valerkis

Da buon italiano appassionato di motori e della storia correlata tutta “Made in Italy”, ho avuto una grande aspettativa per questo film, dalla sua stesura alla regia di Michael Mann.

Enzo Ferrari (Adam Driver), il padre di tutto quanto, nel 1957 si pone un obiettivo importante a livello aziendale che potrebbe ripercuotersi anche nella vita privata: vincere la “Mille Miglia”. Ma Enzo si sente limitato nelle sue decisioni, perché è in società con la moglie Laura (Penélope Cruz) e sta attraversando una crisi generale da ogni punto di vista. Inoltre la sua vita è influenzata da vari fatti spiacevoli accaduti e poi si deve occupare di Piero, altro suo figlio.

Le interpretazioni principali sono state ottime nel complesso. Adam Driver è riuscito a presentarsi nel pieno carattere di un personaggio come Enzo Ferrari. Un carattere forte, determinato e con i suoi lati negativi, come ognuno di noi. Penélope Cruz perfettamente delusa e triste nella situazione in cui si ritrova sia nel lavoro sia nella sua relazione, decretando le sue immense capacità recitative. Sull’estetica la fotografia assume un buon impatto all’occhio dello spettatore, risaltando colori, attimi e situazioni e quindi possiamo dire che il lavoro di Erik Messerschmidt è decisamente buono. Anche la colonna sonora di Daniel Pemberton è stata rilevante ma non da sopravvalutare.

Finiti con gli aspetti estetici, parliamo di come è stato nel complesso questo film. Secondo me, da un film che si intitola “Ferrari” mi aspettavo una storia che mischiava qualcosa inerente all’azienda e alla figura di Enzo Ferrari come imprenditore e di come ideatore del marchio del “Cavallino Rampante”. Invece ho trovato tutt’altro, ossia ciò che riguarda la sua vita privata e uno specifico anno, il 1957. Io non volevo questo, volevo altro perché Enzo Ferrari è stato tutto e di più di quello che è stato mostrato qui. Per carità ha fatto parte della sua vita anche quest’aspetto e non togliendo nulla a Driver e alla Cruz che hanno fatto due bellissime interpretazioni, ma non si doveva chiamare “Ferrari” allora (forse “Enzo” o “Ferrari 1957”). So che "il libro non si giudica dalla copertina" ma il titolo puó ingannare su quello che si vuole trasmettere. La sceneggiatura di Troy Kennedy Martin (tratta dal libro di Brock Yates scritto in collaborazione con lo sceneggiatore) è stata troppo incentrata su aspetti che potevano benissimo essere risparmiati e concentrarsi maggiormente sull’importanza del marchio, di un nome, di un’emblema e di un uomo e magari una spolverata generale dal punto di vista sportivo. Qualche scena esagerata non poteva mancare per abbondare la tensione che c’era tra la coppia protagonista, ma a me ha solo fatto apprezzare sempre di meno questo film. Anche il finale mi ha fatto abbassare notevolmente ancora di piú le aspettative, perché é risultato senza senso e archiviando senza fine la scena e il contesto precedente.

Nonostante questi difetti, nel film di Michael Mann la regia è risultata autentica, data l'esperienza del regista e per quello che è riuscito a fare anche in questo film. Ha lasciato impressi sguardi, attimi e fatti storici interessanti e sto parlando della competizione e di come viene inquadrata nel film. Infatti la parte più interessante in assoluto è stata la scena della “Mille Miglia”, per come è riuscito a riprendere le prestazioni delle auto da corsa e di come siano state maestose. Importante anche riprendere gli sguardi dei piloti, come persone innamorate di quello che facevano ma sempre con quel pizzico di coscienza del rischio a cui correvano ed infine lasciando l’impatto più forte immaginabile con una strage senza precedenti ma non per colpa del grande Enzo, della Ferrari e dei piloti. 

È un vero peccato aver visto un film che non mi ha fatto provare molte emozioni e puntavo personalmente a qualcosa di più immenso, invece ho trovato una storia, diciamo rivista per come viene scritturata. Si sa che non siamo perfetti, facciamo sbagli e ci sono situazioni dove non c’è molta serenità; non è una novità e sembra che ciò è stato messo in risalto troppo. La regia è decisamente ottima, per carità, ma la storia non va. Poi va bene parlare della “Mille Miglia” del 1957, ma avrei puntato a qualcosa di più ricercato e più generalizzato. Perché incentrare la figura di Ferrari solo su quest’evento? Dite per la questione aziendale e di eventuali accordi con Ford o FIAT? Va bene affrontare questo fatto, ma non basta. Volevo di più, punto, soprattutto da un regista come Mann che ha eseguito una buona regia ma mai ai livelli di film precedenti a questo diretti da lui.




venerdì 15 dicembre 2023

IL CINEMA DI DAVID WARK GRIFFITH

David Wark Griffith, personalità estremamente d’avanguardia tecnica del cinema degli anni Dieci, è considerato il “padre” del cinema a stelle e strisce. Non c’è da stupirsi, il suo nome è spesso nominato quando si citano i pilastri della storia del cinema. Griffith, con il suo modello di cinema sperimentalmente innovativo e moralista, ha ormai fatto scuola tanto da diventare un vero e proprio caso di studio. Esiste un cinema prima di Griffith ed un cinema dopo di Griffith. 


Griffith fu figlio di un eroe della Guerra di Secessione, l’ufficiale confederato Jacob Griffith, crebbe nel sud confederato cullato dai racconti romantici della vita militare nel segno di una severa moralità protestante. Il giovane Griffith rimase sin da subito colpito dalla drammaturgia, tanto da voler tentare di intraprendere la carriera di drammaturgo e poi di attore. Scontratosi con una notevole mancanza di talento, individuò nel cinema la sua vocazione.

Tra il 1908 ed il 1913 Griffith lavorò per la Biograph, realizzando più di 400 film in qualità di regista (in un’epoca in cui si produceva tanto ed in fretta, lo standard dei film dell’epoca era il film ad una bobina di 15 minuti massimo). Alla Biograph maturò una certa esperienza, promuovendo le sue prime sperimentazioni tecniche e  linguistiche.


Prima di Griffith, a fine ‘800, il cinema si muoveva sulla base delle attrazioni e sul catturare la meraviglia dello spettatore. Anche nel periodo successivo, i primi del ‘900, la componente attrazionale continuò a ricoprire una certa importanza comunicativa seppur dovette convivere con le prime sperimentazioni narrative (Porter e Méliès su tutti). Griffith ha avuto il merito di estrarre la componente narrativa dai film e renderla finalmente protagonista delle sue pellicole. Dopo di Griffith, il cinema narrativo divenne la norma nel panorama cinematografico successivo. 


Per capire il cinema “alla Griffith” andiamo ad individuare due casi di studio da analizzare: “The Birth of a Nation” (1915) e “Intolerance” (1916).


Il cinema “alla Griffith” si individua subito, all’interno del panorama dell’epoca, per la presenza di due concetti: strutture narrative articolate ma di comprensione universale e film di significato ideologico e morale. Ponendo a confronto “The Birth of a Nation” e “Intolerance, con tutti gli altri film dell’epoca, questi aspetti si notano subito. 


“The Birth of a Nation”, in breve e asciugando di molto, tratta la nascita del KKK. Ad un contesto d’insieme (la guerra di secessione americana) abbina un contesto calato nel particolare (la ribellione degli schiavi afroamericani e la seguente ascesa del KKK). L’argomento appare spigoloso oggi come anche allora. Griffith ricevette numerose accuse di razzismo che lo spingeranno a realizzare “Intolerance” l’anno dopo come risposta a tali accuse. Proprio per questo,Intolerance” presenta una storia molto più “buonista” rispetto al precedente film. Asciugando molto anche in questo caso,Intolerance” tratta il tema dell’intolleranza attraverso le varie epoche della storia umana. Griffith era uomo dell’800 cresciuto nel sud segregazionista e ragionava come tale, perciò quando si analizzano questi film bisogna tener questo aspetto bene in mente.

The Birth of a Nation e Intolerance sono film molto complicati nella loro composizione, per l’epoca innovativi. L’utilizzo di innovazioni nelle tecniche quali, ad esempio, il montaggio alternato (cross cutting - simultaneità delle azioni) e l’utilizzo di innovazioni linguistiche quali, ad esempio, il “salvataggio dell’ultimo minuto” e i primi piani usati in chiave espressiva sono la forza di questi film. In "Intolerance" vi è un sapiente uso della suspance; la narrazione che ha un certo ritmo nel suo scorrere accelera di colpo e ci lascia in balia degli eventi. Inoltre sono due film estremamente complicati nella loro struttura narrativa. The Birth of a Nation” presenta una narrazione articolata ed estremamente carica di messaggio, Intolerancepresenta una struttura articolata su più livelli narrativi. Tuttavia, nell’essere complicati, sono comunque ben comprensibili nel loro scorrere. 

In generale, nei film di Griffith, è presente una grandissima carica politica negli eventi. “The Birth of a Nation” tratta numerosi temi politici, a partire dalla cocente e roboante sconfitta dei confederati durante la guerra di secessione americana fino all’’abolizione della schiavitù; “Intolerance” prende un’intero tema (l’intolleranza) ed, in pratica, ci gioca sopra un’intero film. Altro elemento tipico di Griffith è il lieto fine, che per il regista rappresentava l’apoteosi della comunità, la riconciliazione definitiva, il ripristino dell’equilibrio narrativo; quasi ogni film di Griffith termina con un lieto fine. 


La carica politica degli eventi abbinata ad un sofisticato linguaggio cinematografico ricco di sfaccettature (il lieto fine, il salvataggio all’ultimo minuto, la suspance, alta moralità dietro ai suoi film) caratterizzano il cinema “alla Griffith”. 


Al di là del proprio gusto personale, è innegabile quanto questi due film e Griffith abbiano innovato il cinema dell’epoca, in qualche modo riformandolo.


Articolo redatto da Rickers

sabato 9 dicembre 2023

Fino a qui tutto bene…



Recensione redatta da Valerkis

Quando un mio amico, un po' di mesi fa, mi aveva suggerito la visione di questo film, mi sono subito incuriosito. La pellicola in “bianco e nero” è stata la particolarità a cui mi sono dovuto abituare per novantaquattro minuti e rappresenta un emblema di realismo puro e crudo. Per noi della “generazione Z” è anormale vedere un film con questo aspetto, ma ritornare ad una tipologia del genere, personalmente, non dispiace e ha rappresentato perfettamente l'atmosfera presente nella vicenda.

Tre personaggi: Vinz (interpretato da Vincent Cassel), Hubert (interpretato da Hubert Koundé) e Said (interpretato da Said Taghmaoui) vivono in una periferia (chiamate banlieue) alle porte di Parigi e la vita non è certamente facile. La presenza di una gioventù annoiata e immotivata, è solo uno degli aspetti evidenti. Il quartiere è stato interessato da alcuni scontri contro le forze dell’ordine ed è accaduto che un amico dei protagonisti, è stato violentato. Così un’ipotetica vendetta è nei loro pensieri. La vicenda prende sempre più piede nell’aspetto della degenerazione e dell’ira sociale nei confronti di un sistema che ci vuole “ligi”, come pensano i protagonisti. Potrebbe essere una situazione vista e rivista in altre situazioni cinematografiche, ma è una realtà che concretamente si ripercuote a distanza di tanti anni. Comunque, a livello estetico, il film di Mathieu Kassovitz si rende unico. 

L'interpretazione dei personaggi principali è stata vera e autentica, secondo me. I tre protagonisti si rendono unici nei propri comportamenti, ma Vincent Cassel è stato sicuramente il migliore e quando vorrebbe rappresentare il perfetto sinonimo di quelle che chiamiamo “teste calde”, alla fine si riserva come un qualcuno che si copre dietro quella maschera irascibile e incontenibile. A lui conviene esprimersi cosí per manifestare la sua “filosofia di vita”. 

Pierre Aim completa una fotografia, grazie alla particolare pellicola, eccezionale e inimitabile. Riesce ad immortalare sguardi, spazi e tempi oscuri. Merito anche della regia, ci mancherebbe. 

Due note da fare: qualcuno diceva che “Scarface” di Brian De Palma è il film che detiene il record di parolacce pronunciate, mi sa che questo lo batte. Potrebbe scandalizzare qualcuno, a me no. Perché? Perché così è tutto più diretto e realistico in riferimento al contesto in cui si ritrovano i nostri protagonisti. Poi, quando Cassel si mette davanti lo specchio a dire le sue battute, è un omaggio al personaggio di Robert De Niro in “Taxi Driver” di Martin Scorsese. Palese ma anche apprezzato!

Se ripenso a tutti i film visti di questo genere, il film diretto da Kassovitz è uno dei migliori visti sicuramente. Quando il cinema francese riesce a sfornare qualcosa di singolare, effettuano un buon passo perché riescono a farlo bene. Film acclamato e pluripremiato quello di Kassovitz (che già conoscevo per la regia di “Gothika”) e sicuramente meritato per il racconto di molteplici situazioni complicate come questa e per la popolarità che è riuscito a trasmettere sia nella sua penna sia dietro la macchina da presa. Attori coordinati e perfettamente irascibili, fotografia unica ma solo tanto tanto degrado. D’altronde è stato il forte di questo film. 




mercoledì 6 dicembre 2023

Francia, Esercito, Giuseppina (questo era Napoleone)

 


Recensione redatta da Valerkis

Sono sincero, non avevo previsto un ritorno di Joaquin Phoenix sul grande schermo in una veste del genere e nemmeno un film che raccontasse la storia di un personaggio storico importante come Napoleone Bonaparte. Chi più chi meno ci ricordiamo tutti delle sue storiche battaglie? Lo spero!

Napoleone (Joaquin Phoenix) divenne sottotenente d’artiglieria durante il periodo della “Rivoluzione Francese” e durante la sua carriera aspirava sempre a qualcosa di più, conquistando così un certo potere. Successivamente conobbe Giuseppina (Vanessa Kirby) e grazie a lei, il protagonista ebbe una visione della vita ben diversa, decidendo di provare un sentimento amoroso che si tramutò successivamente in un desiderio di far ereditare ad un possibile concepito il suo potere. 

Mi fermo qui con la trama. Come viene raccontata la storia di questo personaggio nel film diretto da Ridley Scott? C’è una diatriba sul fatto che la reale storia di Napoleone, per alcuni, non corrisponda alla sceneggiatura stesa per questo film. Sicuramente qualcosa è stato romanzato e, secondo me, si nota sull’aspetto di come viene dato spazio al sentimentalismo e al racconto della vita privata di Napoleone Bonaparte. Tutti noi, presumo, volevamo vedere principalmente una storia dove Napoleone veniva raccontato come spiegato nei libri di storia, ma qui si è voluto dare spazio anche alla figura di Giuseppina (o Josephine) importante per Napoleone, dove senza di lei la sua vita era soltanto fare battaglie per le conquiste. 

L’idea di raccontare le sue imprese a 360 gradi è giusta, ma il fatto di aver dato molto spazio alla vita sentimentale ha reso la vicenda più frivola di quella che doveva essere, anche perché è stato un film diviso in due parti: vita sentimentale e vita in guerra. Tutto bello, ma le battaglie che ha fatto sono state solo quelle, ad esempio, in Egitto e la sconfitta a Waterloo? No, signori, no! Napoleone è stato tutto e di più, era l’idolo di quegli anni. Adesso ci sono gli “influencer” come idoli, i “trapper”, al tempo c’erano persone come Napoleone Bonaparte, che partiva e tornava per la sua cara patria francese. Attribuirgli la parola “idolo” mi piace moltissimo, sapete! Non dico che andava prodotto un film di quattro ore, ma raccontare più quello che aveva fatto, invece di ció che era stato al di fuori dell’essere un gran condottiero, avrebbe lasciato un impatto migliore al prodotto finale, secondo me. Soprattutto raccontarlo meglio. Per carità, secondo me esteticamente, ha un suo fascino questo film! Infatti la fotografia di Dariusz Wolski ha raggiunto il massimo in ogni aspetto del suo lavoro, immortalando atti e movimenti delle battaglie dell’epoca e delle imprese napoleoniche. Un altro aspetto che mi ha colpito, riguarda il momento di quando Giuseppina è sola nella sua villetta. Ecco, lì c’è sempre un’atmosfera cupa e fosca, ogni volta che viene inquadrata nello spazio in cui si ritrova. Non c’è mai serenità in quel momento, in quello spazio e tra regia e fotografia sono riusciti a trasmetterlo.

Passiamo alle interpretazioni e parlo principalmente di Joaquin Phoenix e di Vanessa Kirby. Phoenix ha interpretato con maestria questo ruolo, essendo perfettamente autorevole e determinato per immedesimarsi in un personaggio che sapeva cosa fare, ma ti prego Joaquin non diventare come molti di quegli attori che per certe sfaccettature verrai ricordato per uno specifico ruolo interpretato in passato. Quando ti arrabbi non immedesimarti in “Joker”! Era un altro personaggio, un altro contesto, qui sei Napoleone! Incazzati, ma non riprendere gli atteggiamenti di Arthur Fleck. Ti prego! Tralasciando ciò, la sua interpretazione è eccezionale. La Kirby mostra sempre il fascino che c’è in lei, dalla cattiva donna in “Mission Impossible” alla perfetta illusa di un’innamorata che riesce ad assumere un aspetto sempre più cupo e ristretto in questo amore che c’era. Il restante degli attori hanno interpretato personaggi da perfetto sfondo alla vicenda e rimanendo nel loro semplice ruolo storicamente definito. 

Passiamo alla regia: Ridley Scott è un nome, ha una carriera alle spalle di film che più o meno sono gradevoli e belli da vedere. Qui, dove lo troviamo il tocco di classe? Diciamo che ha fatto sicuramente un lavoro dignitoso e significativo, raccontando un personaggio, come Napoleone, storicamente difficile da spiegare per le sue immense imprese, ma secondo me in altri film ha dimostrato in una modalità più diretta la sua artistica regia. Qui ho trovato un Ridley Scott sistematico e poco artistico, facendo quello che doveva: raccontare Napoleone e nient’altro di particolare. La sceneggiatura scritta da David Scarpa è reggente perché non annoia (anche la regia ha giocato bene in questo) ma, come dicevo prima, avrei accurato maggiormente l’aspetto più interessante di un personaggio come quello interpretato da Phoenix. 

Comunque sia, il film ve lo consiglio assolutamente perché sono riusciti a portare qualcosa di interessante, nel complesso. Interpretazioni dei protagonisti delineate e giuste. Fotografia immensa e azzeccata.


  Care lettrici e cari lettori, come avete potuto notare, purtroppo, nemmeno in questo mese appena concluso sono riuscito a rimanere costant...