Recensione redatta da Valerkis
Quando si dice "Vedi Napoli e poi muori!" un motivo c’è. Ditemi quello che volete, ma in fondo hai questa sensazione (almeno per me). Ma qui non si parla di Napoli come protagonista, ma fa da sfondo alle vicende di Parthenope. Un nome importante da attribuire ad una ragazza che dovrebbe mostrare dominanza, unicità e particolarità d’effetto in quello che dice e in quello che fa. Anche in quello che pensa, ma a cosa penserà solitamente? Non si sa, lo si scoprirà vedendo (forse).
Parthenope (Celeste dalla Porta per la parte da giovane e Stefania Sandrelli per la parte finale) nasce a Napoli nel 1950 e in questo film viene raccontata la sua vita in grandi linee, o meglio nel pieno della sua gioventù per poi avviarsi nell’età adulta. Suo fratello Armando rimane affezionato per tutta la vita a lei e in base a dove andava, lui c’era sempre. Ma gli imprevisti sono dietro l’angolo e Parthenope deve prendere la giusta strada per decidere quale intraprendere, rimanendo incredula, incerta e sperduta in quel gran caos che si chiama appunto, vita.
Parliamo subito di regia e sceneggiatura, curate da Paolo Sorrentino che torna dopo tre anni a dirigere un capolavoro ambientato nella sua città natale e non solo. Passerei all’analisi del film, ovviamente per come la penso. La regia assume un mutamento interessante nel corso del film, o meglio assume due macro sfumature: la prima è veloce, diretta e con tanta tecnica per introdurre quella che sarà la vera essenza della storia. Un po’ come la giovinezza, forse, così veloce per non viverla appieno. La seconda più lenta e sperduta, come Parthenope stessa. Deve decidere che strada prendere e vive ogni situazione dalla più toccante alla più soddisfacente, intraprendendo una carriera e seguendo un interesse nel risolvere un mistero che la accompagnerà per buona parte della sua giovinezza. La regia di Sorrentino è autentica in ogni sfumatura, anche con le sue tecniche indimenticabili che ci immergono nella piena corrente “sorrentiniana” della sua lavorazione. La sceneggiatura risulta equilibrata, conforme e continuativa. Fino a qui bellissimo come anche fotografia e scenografia, che sono riusciti a costruire un binomio ottimo nelle sensazioni da trasmettere con molte inquadrature solari, inquietanti e passionali. Alle colonne sonore, Lele Marchitelli incide le sue musiche perfettamente adatte nei vari momenti accompagnate dalle intoccabili canzoni di Riccardo Cocciante, Ornella Vanoni e Gino Paoli.
Delle critiche avrei da fare, però, in particolare quando Parthenope viene orlata di pietre preziose di stampo religioso sul corpo nudo della protagonista. Per me ha rischiato di osare un po’ troppo da questo punto di vista, perché penso di avere un’idea di come la religione vada trattata nella scena in contesti conformi all’etica stessa; anche in un’altra scena avrei qualcosa da dire, nei confronti di inquadrature di un atto erotico in corso. Sarebbe stato meglio che si intravedesse soltanto, ma questa scelta finale potrebbe essere coerente al fatto di mostrare lo squallore in cui si ritrovò in quel momento Parthenope, comprendendo appieno i veri problemi e pericoli della vita.
Direi di passare alle interpretazioni e partirei se non da lei, Celeste Dalla Porta. Alla sua prima esperienza da attrice protagonista riesce ad interpretare perfettamente un personaggio che viene descritto come ho appena fatto all’inizio dell’articolo: dominante, unica e particolarmente d’effetto. Su quest’ultimo non parlo solamente dal punto di vista seduttivo, perché la bellezza viene mostrata senza essere troppo seducenti, anzi la bellezza di Parthenope è in tutto il suo essere. Per questo Dalla Porta è riuscita molto bene nella sua interpretazione. Altro personaggio importante è il suo professore di antropologia all’università, il professor Marotta (interpretato da Silvio Orlando) che segue la protagonista e mostrandosi come un punto cardine nei suoi confronti. Orlando non delude mai. Per arrivare agli altri: la presenza di Gary Oldman (nei panni di John Cheever) che ho apprezzato pienamente; Isabella Ferrari nei panni della misteriosa Flora Malva; Luisa Ranieri nei panni di Greta Cool e per passare ai familiari e a tutte le persone di passaggio che ammiravano Parthenope come se fosse scesa una divinità in persona. Lei era la divinità, rendendosi unica nel suo splendore e con il suo vissuto caratterizzato da una gioventù che risulta dolce e amara subito dopo, perché la vita vera sono altre cose, dove le fratture tendono a dominare e questo lei lo vede ed è il “vedere” il vero senso dell’antropologia. Il vero senso della vita.
Parla di vita, questo è chiaro, ma nel pieno sentimentalismo e assumendo una filosofia d’autore unica che solo Sorrentino riesce a costituire, crescendo sempre di più registicamente e sentendosi convinto in quello che è riuscito a portare sul grande schermo e soprattutto a produrlo (lo apprezzo questo e il numero 10 nei titoli di testa, in onore di Maradona, faceva già capire il tutto) e sul discorso della produzione, ho notato come siano stati coinvolti tre paesi: Italia, Francia e Stati Uniti (Netflix incluso). Non è stato troppo sdolcinato, in fondo, perché quando ti crolla tutto viene percepito, ma riesce ad usare una delicatezza che solo un autore di cinema riesce ad intraprendere e trasmettere, seduzione inclusa. Per questo Parthenope è piaciuto e per questo va visto, per provare tante emozioni e comprendere una filosofia e una visione sulla vita e sulla bellezza mostrata appieno in ogni singolo frammento.
P.S.: sarò pazzo, ma è possibile che dopo ventiquattro ore che avevo visto il film ancora mi tornavano in mente delle scene, senza che ci pensassi? Capolavoro, anche per questo effetto che mi ha scatenato.