domenica 24 dicembre 2023

Buon Natale!


Recensione redatta da Valerkis

Quest’anno per il post di Natale vorrei proporre il film che ha dato inizio alla serie tutta italiana dei cosiddetti “cinepanettoni”. Quest’anno sono passati 40 anni dall'indimenticabile “Vacanze di Natale” firmato dai fratelli Vanzina.

La trama, in sintesi: quattro famiglie si incontrano nelle varie vicende ambientate nella splendida atmosfera di Cortina d’Ampezzo. Ci sono i Covelli, i Marchetti, i Braghetti e l’unico e indimenticabile Billo. Le vicende si costituiscono proprio per l’atmosfera natalizia positiva e negativa che in ogni famiglia riveste, tirando fuori così i propri stereotipi e vizi. Ovviamente non tralasciando la comicità delle varie successioni di fatti. 

Passiamo ai personaggi e alle rispettive interpretazioni: partirei con il personaggio principale di tutto quanto, a mio parere, che è Billo (interpretato da Jerry Calà). Ogni anno viene a Cortina per lavorare al piano bar del locale “Vip Club” con l’obiettivo di “conquistare” qualche ragazza che gli girava intorno. “Non sono bello, piaccio!” diceva. Comunque credo sia un personaggio unico nello stile che solo uno come Jerry Calà riesce a fare. Poi passiamo ai Covelli: parliamo di Luca (Marco Urbinati) e Roberto (Christian De Sica). Il primo è affezionato alla squadra di calcio della “Magica Roma” e il secondo è preso dalle proprie ansie portandosi con sé la bellissima Samantha (Karina Huff). La Huff è stata semplice e affascinante nella sua interpretazione. Tra i due fratelli, De Sica ha avuto decisamente una marcia superiore. Sempre nei Covelli, c’è da sottolineare la modesta e immensa interpretazione di Riccardo Garrone nei panni dell’avvocato Giovanni Covelli, padre di Luca e Roberto, preso dal fatto che deve sopportare l’esigente moglie (Rossella Como) e liberandosi alla fine con una frase che scommetto molti penseranno realmente: “Anche questo Natale, se lo semo levato [...]”. Poi c’è Mario Marchetti (Claudio Amendola), figlio di Arturo (Mario Brega), sorpreso nel trovare Luca, appunto, starà sempre con lui preso da colpi di fulmine e imbarazzi dato il diverso contesto sociale in cui si ritrova, avendo a che fare soprattutto con Serenella (Antonella Interlenghi), perché lo prende di mira data la sua evidente gelosia. Poi infine ci sono il “Dogui”, nome d’arte di Guido Nicheli e una bellissima Stefania Sandrelli. “Alboreto is nothing!”, “See you later!”, “Sole, whisky e sei in pole position!” sono solo alcune delle celebri frasi dette e improvvisate da Dogui in questo film. La sua sporca figura è riuscita a farla benissimo, determinando un’icona, come la sua, storica della commedia italiana di quegli anni. La Sandrelli è decisamente influenzata da vari accadimenti e imprevisti, ma elegante nella sua bellezza e nel suo ruolo.

Quindi, in generale, come sono stati gli attori? Non ci sono interpretazioni superficiali, ma giuste e comunque parliamo sempre di un film che non vuole condividere degli insegnamenti, ma solo analizzare comicamente una società, come quella italiana degli anni ’80, nei loro atteggiamenti durante le vacanze natalizie in un luogo come Cortina, passando da un contesto sociale all’altro. Poi, per me, i personaggi più iconici, perché più rilevanti, penso di averli citati e comunque ribadisco: Jerry Calà e il “Dogui”. Non togliendo nulla agli altri!

Carlo ed Enrico Vanzina hanno scritto una sceneggiatura semplice e delineata per ciò che dovevano raccontare e la regia di Carlo è stata giusta nella commedia comica a cui ho assistito. L’intento è stato sicuramente quello di raccontare una vicenda allegra e in questo gli sceneggiatori sono riusciti assolutamente! Ma non tralasciano da parte anche l’aspetto negativo di una società che assume sempre più sfaccettature viziate, di pregiudizio, di imitazioni e di invidia. I fratelli Vanzina scrivono una sceneggiatura che si concentrano nel trovare quel “click” che fa scattare la risata al pubblico. Ovviamente è stato un campione d’incasso, data la maggior rilevanza del pubblico nelle sale e dalla comicità delle situazioni rappresentate, anche grazie alla composizione del cast. In fondo, i De Laurentiis come produttori hanno fatto un buon investimento dal punto di vista commerciale e del contenuto. Infine vorrei sottolineare la ricca colonna sonora che accompagna le vicende, da “Vita Spericolata” di Vasco Rossi ad “Ancora” di Eduardo De Crescenzo per arrivare ad alcune delle canzoni che accennavano il bel periodo della dance anni ’80 e ’90 e per arrivare alla famosa “Maracaibo”.

Rivolgo un messaggio ai miei coetanei: non sto sopravvalutando il film, ma vi invito a vederlo e a confrontarlo con altri che avete visto più attuali. Non c’è paragone! L’unicità di questo film, per il suo genere, è imbattibile, partendo dal cast da cui è composto e a tutto il resto raccontato come doveva. Qualcuno direbbe che con questo si percepiva il benessere del periodo e magari avranno ragione, ma penso sia contestabile questo aspetto. So già cosa mi dirà qualcuno: “Ma che ne sanno i 2000?”. È vero, che ne so io degli anni ’80, però non sembra cambiato molto l’italiano da quel periodo. Comunque fregatevene dei dettagli, vedetevelo! Rideteci su e vi posso solo augurare un Felice Natale!


giovedì 21 dicembre 2023

Non ho percepito a fondo il cuore del “Cavallino Rampante”


Recensione redatta da Valerkis

Da buon italiano appassionato di motori e della storia correlata tutta “Made in Italy”, ho avuto una grande aspettativa per questo film, dalla sua stesura alla regia di Michael Mann.

Enzo Ferrari (Adam Driver), il padre di tutto quanto, nel 1957 si pone un obiettivo importante a livello aziendale che potrebbe ripercuotersi anche nella vita privata: vincere la “Mille Miglia”. Ma Enzo si sente limitato nelle sue decisioni, perché è in società con la moglie Laura (Penélope Cruz) e sta attraversando una crisi generale da ogni punto di vista. Inoltre la sua vita è influenzata da vari fatti spiacevoli accaduti e poi si deve occupare di Piero, altro suo figlio.

Le interpretazioni principali sono state ottime nel complesso. Adam Driver è riuscito a presentarsi nel pieno carattere di un personaggio come Enzo Ferrari. Un carattere forte, determinato e con i suoi lati negativi, come ognuno di noi. Penélope Cruz perfettamente delusa e triste nella situazione in cui si ritrova sia nel lavoro sia nella sua relazione, decretando le sue immense capacità recitative. Sull’estetica la fotografia assume un buon impatto all’occhio dello spettatore, risaltando colori, attimi e situazioni e quindi possiamo dire che il lavoro di Erik Messerschmidt è decisamente buono. Anche la colonna sonora di Daniel Pemberton è stata rilevante ma non da sopravvalutare.

Finiti con gli aspetti estetici, parliamo di come è stato nel complesso questo film. Secondo me, da un film che si intitola “Ferrari” mi aspettavo una storia che mischiava qualcosa inerente all’azienda e alla figura di Enzo Ferrari come imprenditore e di come ideatore del marchio del “Cavallino Rampante”. Invece ho trovato tutt’altro, ossia ciò che riguarda la sua vita privata e uno specifico anno, il 1957. Io non volevo questo, volevo altro perché Enzo Ferrari è stato tutto e di più di quello che è stato mostrato qui. Per carità ha fatto parte della sua vita anche quest’aspetto e non togliendo nulla a Driver e alla Cruz che hanno fatto due bellissime interpretazioni, ma non si doveva chiamare “Ferrari” allora (forse “Enzo” o “Ferrari 1957”). So che "il libro non si giudica dalla copertina" ma il titolo puó ingannare su quello che si vuole trasmettere. La sceneggiatura di Troy Kennedy Martin (tratta dal libro di Brock Yates scritto in collaborazione con lo sceneggiatore) è stata troppo incentrata su aspetti che potevano benissimo essere risparmiati e concentrarsi maggiormente sull’importanza del marchio, di un nome, di un’emblema e di un uomo e magari una spolverata generale dal punto di vista sportivo. Qualche scena esagerata non poteva mancare per abbondare la tensione che c’era tra la coppia protagonista, ma a me ha solo fatto apprezzare sempre di meno questo film. Anche il finale mi ha fatto abbassare notevolmente ancora di piú le aspettative, perché é risultato senza senso e archiviando senza fine la scena e il contesto precedente.

Nonostante questi difetti, nel film di Michael Mann la regia è risultata autentica, data l'esperienza del regista e per quello che è riuscito a fare anche in questo film. Ha lasciato impressi sguardi, attimi e fatti storici interessanti e sto parlando della competizione e di come viene inquadrata nel film. Infatti la parte più interessante in assoluto è stata la scena della “Mille Miglia”, per come è riuscito a riprendere le prestazioni delle auto da corsa e di come siano state maestose. Importante anche riprendere gli sguardi dei piloti, come persone innamorate di quello che facevano ma sempre con quel pizzico di coscienza del rischio a cui correvano ed infine lasciando l’impatto più forte immaginabile con una strage senza precedenti ma non per colpa del grande Enzo, della Ferrari e dei piloti. 

È un vero peccato aver visto un film che non mi ha fatto provare molte emozioni e puntavo personalmente a qualcosa di più immenso, invece ho trovato una storia, diciamo rivista per come viene scritturata. Si sa che non siamo perfetti, facciamo sbagli e ci sono situazioni dove non c’è molta serenità; non è una novità e sembra che ciò è stato messo in risalto troppo. La regia è decisamente ottima, per carità, ma la storia non va. Poi va bene parlare della “Mille Miglia” del 1957, ma avrei puntato a qualcosa di più ricercato e più generalizzato. Perché incentrare la figura di Ferrari solo su quest’evento? Dite per la questione aziendale e di eventuali accordi con Ford o FIAT? Va bene affrontare questo fatto, ma non basta. Volevo di più, punto, soprattutto da un regista come Mann che ha eseguito una buona regia ma mai ai livelli di film precedenti a questo diretti da lui.




venerdì 15 dicembre 2023

IL CINEMA DI DAVID WARK GRIFFITH

David Wark Griffith, personalità estremamente d’avanguardia tecnica del cinema degli anni Dieci, è considerato il “padre” del cinema a stelle e strisce. Non c’è da stupirsi, il suo nome è spesso nominato quando si citano i pilastri della storia del cinema. Griffith, con il suo modello di cinema sperimentalmente innovativo e moralista, ha ormai fatto scuola tanto da diventare un vero e proprio caso di studio. Esiste un cinema prima di Griffith ed un cinema dopo di Griffith. 


Griffith fu figlio di un eroe della Guerra di Secessione, l’ufficiale confederato Jacob Griffith, crebbe nel sud confederato cullato dai racconti romantici della vita militare nel segno di una severa moralità protestante. Il giovane Griffith rimase sin da subito colpito dalla drammaturgia, tanto da voler tentare di intraprendere la carriera di drammaturgo e poi di attore. Scontratosi con una notevole mancanza di talento, individuò nel cinema la sua vocazione.

Tra il 1908 ed il 1913 Griffith lavorò per la Biograph, realizzando più di 400 film in qualità di regista (in un’epoca in cui si produceva tanto ed in fretta, lo standard dei film dell’epoca era il film ad una bobina di 15 minuti massimo). Alla Biograph maturò una certa esperienza, promuovendo le sue prime sperimentazioni tecniche e  linguistiche.


Prima di Griffith, a fine ‘800, il cinema si muoveva sulla base delle attrazioni e sul catturare la meraviglia dello spettatore. Anche nel periodo successivo, i primi del ‘900, la componente attrazionale continuò a ricoprire una certa importanza comunicativa seppur dovette convivere con le prime sperimentazioni narrative (Porter e Méliès su tutti). Griffith ha avuto il merito di estrarre la componente narrativa dai film e renderla finalmente protagonista delle sue pellicole. Dopo di Griffith, il cinema narrativo divenne la norma nel panorama cinematografico successivo. 


Per capire il cinema “alla Griffith” andiamo ad individuare due casi di studio da analizzare: “The Birth of a Nation” (1915) e “Intolerance” (1916).


Il cinema “alla Griffith” si individua subito, all’interno del panorama dell’epoca, per la presenza di due concetti: strutture narrative articolate ma di comprensione universale e film di significato ideologico e morale. Ponendo a confronto “The Birth of a Nation” e “Intolerance, con tutti gli altri film dell’epoca, questi aspetti si notano subito. 


“The Birth of a Nation”, in breve e asciugando di molto, tratta la nascita del KKK. Ad un contesto d’insieme (la guerra di secessione americana) abbina un contesto calato nel particolare (la ribellione degli schiavi afroamericani e la seguente ascesa del KKK). L’argomento appare spigoloso oggi come anche allora. Griffith ricevette numerose accuse di razzismo che lo spingeranno a realizzare “Intolerance” l’anno dopo come risposta a tali accuse. Proprio per questo,Intolerance” presenta una storia molto più “buonista” rispetto al precedente film. Asciugando molto anche in questo caso,Intolerance” tratta il tema dell’intolleranza attraverso le varie epoche della storia umana. Griffith era uomo dell’800 cresciuto nel sud segregazionista e ragionava come tale, perciò quando si analizzano questi film bisogna tener questo aspetto bene in mente.

The Birth of a Nation e Intolerance sono film molto complicati nella loro composizione, per l’epoca innovativi. L’utilizzo di innovazioni nelle tecniche quali, ad esempio, il montaggio alternato (cross cutting - simultaneità delle azioni) e l’utilizzo di innovazioni linguistiche quali, ad esempio, il “salvataggio dell’ultimo minuto” e i primi piani usati in chiave espressiva sono la forza di questi film. In "Intolerance" vi è un sapiente uso della suspance; la narrazione che ha un certo ritmo nel suo scorrere accelera di colpo e ci lascia in balia degli eventi. Inoltre sono due film estremamente complicati nella loro struttura narrativa. The Birth of a Nation” presenta una narrazione articolata ed estremamente carica di messaggio, Intolerancepresenta una struttura articolata su più livelli narrativi. Tuttavia, nell’essere complicati, sono comunque ben comprensibili nel loro scorrere. 

In generale, nei film di Griffith, è presente una grandissima carica politica negli eventi. “The Birth of a Nation” tratta numerosi temi politici, a partire dalla cocente e roboante sconfitta dei confederati durante la guerra di secessione americana fino all’’abolizione della schiavitù; “Intolerance” prende un’intero tema (l’intolleranza) ed, in pratica, ci gioca sopra un’intero film. Altro elemento tipico di Griffith è il lieto fine, che per il regista rappresentava l’apoteosi della comunità, la riconciliazione definitiva, il ripristino dell’equilibrio narrativo; quasi ogni film di Griffith termina con un lieto fine. 


La carica politica degli eventi abbinata ad un sofisticato linguaggio cinematografico ricco di sfaccettature (il lieto fine, il salvataggio all’ultimo minuto, la suspance, alta moralità dietro ai suoi film) caratterizzano il cinema “alla Griffith”. 


Al di là del proprio gusto personale, è innegabile quanto questi due film e Griffith abbiano innovato il cinema dell’epoca, in qualche modo riformandolo.


Articolo redatto da Rickers

sabato 9 dicembre 2023

Fino a qui tutto bene…



Recensione redatta da Valerkis

Quando un mio amico, un po' di mesi fa, mi aveva suggerito la visione di questo film, mi sono subito incuriosito. La pellicola in “bianco e nero” è stata la particolarità a cui mi sono dovuto abituare per novantaquattro minuti e rappresenta un emblema di realismo puro e crudo. Per noi della “generazione Z” è anormale vedere un film con questo aspetto, ma ritornare ad una tipologia del genere, personalmente, non dispiace e ha rappresentato perfettamente l'atmosfera presente nella vicenda.

Tre personaggi: Vinz (interpretato da Vincent Cassel), Hubert (interpretato da Hubert Koundé) e Said (interpretato da Said Taghmaoui) vivono in una periferia (chiamate banlieue) alle porte di Parigi e la vita non è certamente facile. La presenza di una gioventù annoiata e immotivata, è solo uno degli aspetti evidenti. Il quartiere è stato interessato da alcuni scontri contro le forze dell’ordine ed è accaduto che un amico dei protagonisti, è stato violentato. Così un’ipotetica vendetta è nei loro pensieri. La vicenda prende sempre più piede nell’aspetto della degenerazione e dell’ira sociale nei confronti di un sistema che ci vuole “ligi”, come pensano i protagonisti. Potrebbe essere una situazione vista e rivista in altre situazioni cinematografiche, ma è una realtà che concretamente si ripercuote a distanza di tanti anni. Comunque, a livello estetico, il film di Mathieu Kassovitz si rende unico. 

L'interpretazione dei personaggi principali è stata vera e autentica, secondo me. I tre protagonisti si rendono unici nei propri comportamenti, ma Vincent Cassel è stato sicuramente il migliore e quando vorrebbe rappresentare il perfetto sinonimo di quelle che chiamiamo “teste calde”, alla fine si riserva come un qualcuno che si copre dietro quella maschera irascibile e incontenibile. A lui conviene esprimersi cosí per manifestare la sua “filosofia di vita”. 

Pierre Aim completa una fotografia, grazie alla particolare pellicola, eccezionale e inimitabile. Riesce ad immortalare sguardi, spazi e tempi oscuri. Merito anche della regia, ci mancherebbe. 

Due note da fare: qualcuno diceva che “Scarface” di Brian De Palma è il film che detiene il record di parolacce pronunciate, mi sa che questo lo batte. Potrebbe scandalizzare qualcuno, a me no. Perché? Perché così è tutto più diretto e realistico in riferimento al contesto in cui si ritrovano i nostri protagonisti. Poi, quando Cassel si mette davanti lo specchio a dire le sue battute, è un omaggio al personaggio di Robert De Niro in “Taxi Driver” di Martin Scorsese. Palese ma anche apprezzato!

Se ripenso a tutti i film visti di questo genere, il film diretto da Kassovitz è uno dei migliori visti sicuramente. Quando il cinema francese riesce a sfornare qualcosa di singolare, effettuano un buon passo perché riescono a farlo bene. Film acclamato e pluripremiato quello di Kassovitz (che già conoscevo per la regia di “Gothika”) e sicuramente meritato per il racconto di molteplici situazioni complicate come questa e per la popolarità che è riuscito a trasmettere sia nella sua penna sia dietro la macchina da presa. Attori coordinati e perfettamente irascibili, fotografia unica ma solo tanto tanto degrado. D’altronde è stato il forte di questo film. 




mercoledì 6 dicembre 2023

Francia, Esercito, Giuseppina (questo era Napoleone)

 


Recensione redatta da Valerkis

Sono sincero, non avevo previsto un ritorno di Joaquin Phoenix sul grande schermo in una veste del genere e nemmeno un film che raccontasse la storia di un personaggio storico importante come Napoleone Bonaparte. Chi più chi meno ci ricordiamo tutti delle sue storiche battaglie? Lo spero!

Napoleone (Joaquin Phoenix) divenne sottotenente d’artiglieria durante il periodo della “Rivoluzione Francese” e durante la sua carriera aspirava sempre a qualcosa di più, conquistando così un certo potere. Successivamente conobbe Giuseppina (Vanessa Kirby) e grazie a lei, il protagonista ebbe una visione della vita ben diversa, decidendo di provare un sentimento amoroso che si tramutò successivamente in un desiderio di far ereditare ad un possibile concepito il suo potere. 

Mi fermo qui con la trama. Come viene raccontata la storia di questo personaggio nel film diretto da Ridley Scott? C’è una diatriba sul fatto che la reale storia di Napoleone, per alcuni, non corrisponda alla sceneggiatura stesa per questo film. Sicuramente qualcosa è stato romanzato e, secondo me, si nota sull’aspetto di come viene dato spazio al sentimentalismo e al racconto della vita privata di Napoleone Bonaparte. Tutti noi, presumo, volevamo vedere principalmente una storia dove Napoleone veniva raccontato come spiegato nei libri di storia, ma qui si è voluto dare spazio anche alla figura di Giuseppina (o Josephine) importante per Napoleone, dove senza di lei la sua vita era soltanto fare battaglie per le conquiste. 

L’idea di raccontare le sue imprese a 360 gradi è giusta, ma il fatto di aver dato molto spazio alla vita sentimentale ha reso la vicenda più frivola di quella che doveva essere, anche perché è stato un film diviso in due parti: vita sentimentale e vita in guerra. Tutto bello, ma le battaglie che ha fatto sono state solo quelle, ad esempio, in Egitto e la sconfitta a Waterloo? No, signori, no! Napoleone è stato tutto e di più, era l’idolo di quegli anni. Adesso ci sono gli “influencer” come idoli, i “trapper”, al tempo c’erano persone come Napoleone Bonaparte, che partiva e tornava per la sua cara patria francese. Attribuirgli la parola “idolo” mi piace moltissimo, sapete! Non dico che andava prodotto un film di quattro ore, ma raccontare più quello che aveva fatto, invece di ció che era stato al di fuori dell’essere un gran condottiero, avrebbe lasciato un impatto migliore al prodotto finale, secondo me. Soprattutto raccontarlo meglio. Per carità, secondo me esteticamente, ha un suo fascino questo film! Infatti la fotografia di Dariusz Wolski ha raggiunto il massimo in ogni aspetto del suo lavoro, immortalando atti e movimenti delle battaglie dell’epoca e delle imprese napoleoniche. Un altro aspetto che mi ha colpito, riguarda il momento di quando Giuseppina è sola nella sua villetta. Ecco, lì c’è sempre un’atmosfera cupa e fosca, ogni volta che viene inquadrata nello spazio in cui si ritrova. Non c’è mai serenità in quel momento, in quello spazio e tra regia e fotografia sono riusciti a trasmetterlo.

Passiamo alle interpretazioni e parlo principalmente di Joaquin Phoenix e di Vanessa Kirby. Phoenix ha interpretato con maestria questo ruolo, essendo perfettamente autorevole e determinato per immedesimarsi in un personaggio che sapeva cosa fare, ma ti prego Joaquin non diventare come molti di quegli attori che per certe sfaccettature verrai ricordato per uno specifico ruolo interpretato in passato. Quando ti arrabbi non immedesimarti in “Joker”! Era un altro personaggio, un altro contesto, qui sei Napoleone! Incazzati, ma non riprendere gli atteggiamenti di Arthur Fleck. Ti prego! Tralasciando ciò, la sua interpretazione è eccezionale. La Kirby mostra sempre il fascino che c’è in lei, dalla cattiva donna in “Mission Impossible” alla perfetta illusa di un’innamorata che riesce ad assumere un aspetto sempre più cupo e ristretto in questo amore che c’era. Il restante degli attori hanno interpretato personaggi da perfetto sfondo alla vicenda e rimanendo nel loro semplice ruolo storicamente definito. 

Passiamo alla regia: Ridley Scott è un nome, ha una carriera alle spalle di film che più o meno sono gradevoli e belli da vedere. Qui, dove lo troviamo il tocco di classe? Diciamo che ha fatto sicuramente un lavoro dignitoso e significativo, raccontando un personaggio, come Napoleone, storicamente difficile da spiegare per le sue immense imprese, ma secondo me in altri film ha dimostrato in una modalità più diretta la sua artistica regia. Qui ho trovato un Ridley Scott sistematico e poco artistico, facendo quello che doveva: raccontare Napoleone e nient’altro di particolare. La sceneggiatura scritta da David Scarpa è reggente perché non annoia (anche la regia ha giocato bene in questo) ma, come dicevo prima, avrei accurato maggiormente l’aspetto più interessante di un personaggio come quello interpretato da Phoenix. 

Comunque sia, il film ve lo consiglio assolutamente perché sono riusciti a portare qualcosa di interessante, nel complesso. Interpretazioni dei protagonisti delineate e giuste. Fotografia immensa e azzeccata.


sabato 25 novembre 2023

Giornata contro la violenza sulle donne





Recensione redatta da Valerkis

Il 25 novembre di ogni anno si celebra la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne e quest’anno, in Italia, viene celebrata tra il ricordo dell’omicidio di Giulia Cecchettin e l’approvazione definitiva del “Ddl Roccella” contro la violenza di genere proposta dall’attuale ministra per le pari opportunità. 

Io, per l’etica del blog, posso proporre qualche spunto cinematografico da prendere in considerazione per far sì che l’argomento venga affrontato. Tratteró questo film italiano (anche se dura un’ora scarsa, lo reputerei comunque un lungometraggio, data la sua intensità) diretto da Irish Braschi che porta in chiaro la sceneggiatura curata da Giancarlo De Cataldo (scrittore di “Romanzo Criminale”, “Suburra” e altre sceneggiature) e Giorgia Cecere, tratta dal romanzo omonimo di Dacia Maraini. 

Cinque donne vivono una realtà amara che peggiora giorno dopo giorno: Marina (Stefania Rocca), Angela (Elena Sofia Ricci), Anna (Gabriella Pession), Alessandra (Chiara Mastalli) e Francesca (Elisabetta Mirra) sono le nostre protagoniste. Chi fa la mamma, chi la professoressa, chi è una semplice adolescente, chi fa l’attrice e chi lavora per arrivare a fine mese, sono persone e donne che nella loro quotidianità danno il proprio contributo, ma vengono tormentate da uomini che approfittano della loro fragilità e della loro essenza di donna (interpretati da Alessandro Preziosi, Antonello Fassari, Massimo Poggio e Francesco Montanari). Ci sarebbero anche Emilio Solfrizzi e Antonio Catania, nel cast, ma non rientrano tra chi esercita le violenze.

Non sono qui per impartire concetti e discorsi soliti per evitare di essere scontato, ma ci sono questi film così diretti, anche se con durata ridotta, che ti immergono in una realtà devastante psicologicamente e ignari a molti. Assume, di sicuro, una precisa ottica ideologica e politica nell'affrontare un argomento tosto come la violenza sulle donne in ogni forma, giocando le carte giuste attraverso interpretazioni maschili piuttosto grottesche e interpretazioni femminili fragili ma decisamente immense. Bravi tutti, sia i violenti sia le vittime. La colonna sonora di Teho Teardo accompagna tutta la vicenda perfettamente e ti fa percepire tutta la violenza subita. Mi é piaciuta molto. La regia è dinamica, diretta e “underground” (a me piace questo genere, ovvero una “regia di strada e non troppo elaborata”) e mostra ciò che bisogna sapere e raccontare, attraverso queste storie ben delineate tratte dal libro della Maraini. A mio parere, sono state raccontate notevolmente, giungendo cosí allo scopo finale. Può sembrare il tutto sbrigativo e non elaborato al massimo, sembrando uno spot lungo quasi un’ora, ma qui non c’era bisogno di dilungarsi. L'importante era arrivare dritto alla questione!

Riflettiamo ogni tanto su ciò che ci circonda e cerchiamo di trarre le nostre razionali conclusioni, sperando di avervi invogliato a vedere questo film che merita, nonostante la sua ridotta esposizione. Il fatto di essere immenso nell'immediato è notevole, come la musica che ti accompagna nella violenza e le interpretazioni degne di un cast decisamente maturo e capace di interpretare personaggi nel complesso fragili (quelli femminili) e tutto sommato inconsci (quelli maschili) di quello che fanno. 

giovedì 16 novembre 2023

L'esordio che fa scoppiare i cinema italiani


Recensione redatta da Valerkis

Il cinema italiano, durante questo 2023 è stato influenzato dall'esordio alla regia di Paola Cortellesi e il suo film sta facendo in questo momento record di incassi. Quando un personaggio come Paola Cortellesi decide di esordire dietro la macchina da presa significa che ha raggiunto un punto della carriera dove può manifestare una certa maturità acquisita che si determina in una certezza nel suo campo.

Arriviamo al dunque. Siamo a Roma, nel Dopoguerra e in un anno ben preciso, il 1946. Delia (Paola Cortellesi) è una donna che pratica molteplici lavori per dare i propri compensi ad Ivano, suo marito (Valerio Mastandrea) che già lavora di suo. Il carattere di Ivano è decisamente duro e violento nei confronti della moglie e Delia si sente così ostacolata dal marito e di come le sue vere espressioni non riescono ad emergere. Insieme a lei ci sono anche la figlia Marcella (Romana Maggiora Vergano), il suocero Sor Ottorino (Giorgio Colangeli) e i figli più piccoli. Nelle sue giornate non sarà sola, ci sarà l'amica Marisa (Emanuela Fanelli) a sostenerla e a coprirla in alcuni momenti e Nino (Vinicio Marchioni) che le promette di scappare insieme.

Parliamo degli attori: Paola Cortellesi e Valerio Mastandrea insieme riescono a creare una bella coppia nel proprio mestiere e se in “Figli” di Giuseppe Bonito avevano giocato bene, qui riescono a coinvolgere pienamente il pubblico grazie al difficile rapporto instaurato dall’inizio alla fine. La violenza trasmessa viene dimostrata nella maniera più artistica immaginabile, a mio parere, tramite il ballo e se il pubblico reagiva quando compariva Mastandrea che cercava a tutti costi la Cortellesi, significa che il film ha funzionato e coinvolto pienamente tutti. Sala pienissima, d’altronde con tanto di standing ovation. Buona interpretazione anche per la Fanelli che ha definito così le sue capacità recitative e cercando di dare un aspetto più avanzato al suo ruolo di attrice. Per arrivare alla Vergano e a tutti quanti gli altri, insomma chi più chi meno si trovano tutti allo stesso livello, ovvero alto e di garanzia.

Mi sono ritrovato davanti ad un film che ha degli importanti messaggi da tramandare, sicuramente, riportandoci in un’epoca non lontanissima dove infine le donne italiane hanno cominciato a mostrarsi rilevanti attraverso un’importante passo. È un film che da subito si considera diretto, secondo me, facendoti immergere nel contesto di quegli anni socialmente difficili. Infine è quello che ha voluto fare Paola Cortellesi con questo film. Regia determinata per essere il suo esordio dietro la macchina da presa, rimanendo proporzionata e questo è stato importante. Insomma non ha esagerato nella lavorazione totale della vicenda ed é stata anche una regia avanzata e ben coordinata, dal punto di vista estetico. La sceneggiatura scritta da Paola Cortellesi, Furio Andreotti e Giulia Calenda è solida e dettagliata, nel complesso. Sono riusciti a trasmettere una vicenda importante e riflessiva, con qualche risata che sfugge grazie al dialetto romano. Ho notato come questo film sia un chiaro omaggio ad un periodo storico molto particolare: il “Neorealismo” e la pellicola in B/N (bianco e nero) é stata l'emblema di quest'omaggio (non solo, ovvio). Personalmente ho apprezzato la scelta della pellicola, come l’ambientazione nella classica “borgata” romana e quale poteva scegliere, se non la borgata di “Testaccio”! La fotografia di Davide Leone é stata ben combaciata alla regia e al montaggio curato da Valentina Mariani, mi é piaciuta molto. Le musiche, curate da Lele Marchitelli, sono state bilanciate, includendo brani dell’epoca e brani un po' piú moderni.

Questo film ha incollato me e tanti italiani davanti lo schermo perché la regista è riuscita a creare una storia, tutto sommato, coinvolgente dove un mix tra risate, paura e coraggio ha determinato la storia della donna italiana, una donna che ha bisogno di evolversi e dare un contributo alla società in maniera decisamente più ampia, evitando di limitarsi a lavoretti per i mariti e/o a fare le casalinghe, prendendo tante di quelle botte. C’è tutto: la trama forte, la bravura di tutti gli attori, la risata, la regia ben definita, il pubblico e…che altro vogliamo metterci? Probabile qualche premio in più, in arrivo!



lunedì 13 novembre 2023

JAWS (1975)


Nell’estate del 1975 uscì, nelle sale cinematografiche statunitensi, un film destinato a cambiare radicalmente e irreversibilmente le vite dello spettatore ordinario.

Un film che cambiò enormemente il concetto di film intenso come mero prodotto commerciale; scrivendo una definizione di film orientata più verso una forma di lucro che ad una semplice forma di espressione artistica. È uno dei film più importanti della storia del cinema, senza alcun ragionevole dubbio. Non tanto perché sia un film bello o brutto, ma letteralmente per tutti gli altri motivi. Il 1975 è per questo una delle tante date spartiacque per la storia del cinema, che visse in quegli anni un nuovo ribaltone. Un ribaltone che l’Italia conobbe con il nome de “Lo Squalo”.

“Jaws” ("Lo Squalo" appunto) è un film famosissimo e per questo sorvolerò su tutto quello che potrei raccontare in modo da arrivare al punto. La trama la conosciamo tutti, la riassumo in breve solamente per chi non se la ricorda: uno squalo mangiauomini terrorizza le coste di una gettonata meta balneare mietendo vittime a destra e a manca; per garantire l’incolumità dei bagnanti viene istituita una vera e propria “caccia allo squalo”.


Ora, il successo che il film ha avuto e continua ad avere dopo decenni dalla sua uscita è innegabile e ben tangibile da tutti. Le storie dal set sono diventate ormai di dominio pubblico. Le riprese del film sono state costellate da continui problemi tecnici che ne allungarono di parecchio i tempi. Il budget iniziale stanziato per le riprese fu abbastanza  esiguo e per questo superò di tantissimo le previsioni iniziali. Il film rischiò seriamente di non essere portato in porto. Steven Spielberg, lo sconosciuto scelto per muovere la macchina da presa, fu sotto pressione fin da subito


La domanda fatidica: “Come mai “Jaws” è stato un successo clamoroso e come mai, ad oggi, questo film è considerato un “turning point” per la storia del cinema?”.


Punto primo: i continui problemi tecnici. Per l’epoca, “Jaws” fu un lavoro molto ambizioso. Le volontà di Spielberg di riprendere il protagonista di “Jaws”, ovvero l’incubo dello Squalo, non sorrise alle casse messe a disposizione dai due produttori, Richard Zanuck e David Brown. I produttori Universal, nel 1973, comprarono i diritti di un romanzo che poteva seriamente rivelarsi un crack: “Jaws” di Peter Benchley. Il romanzo di Benchley all’epoca era solo un mucchio di bozze, ma al duo quell’idea piacque talmente tanto da voler realizzarci sopra un film fatto su misura. Nelle idee iniziali di Zanuck e Brown, “Jaws” doveva essere un film a basso budget, con poche pretese. Tra i tanti registi candidati, per questioni di tempo (il libro di Benchley sarebbe uscito di lì a breve), vinse Spielberg. Il regista aveva però una visione molto ambiziosa del film, ben lontana dalle idee a basso budget dei produttori. Si arriva quindi sul set con dei modelli meccanizzati di squalo, come da indicazioni del regista. I modelli furono un fiasco totale e si colarono inesorabilmente in acqua, costringendo Spielberg a cercare nuove idee geniali. 


L’illuminazione alla fine si rivela giusta, quella di non mostrare lo squalo preferendo solo suggerire la presenza dello squalo. Questo azzardo farà il successo di “Jaws”. Il film, per gli spettatori dell’epoca, fu una doccia gelata. “Jaws” alzerà lo standard e l’immaginario collettivo della paura, optando per la scelta obbligata di occultare la minaccia. Dopotutto, niente ci fa più paura di una minaccia che non possiamo vedere. 


Punto secondo: il montaggio e le musiche. La prima sequenza è evocativa: la soggettiva ripresa dagli occhi dello squalo mentre si avvicina al pelo dell’acqua. Il montaggio di Verna Fields, una delle più grandi montatrici di Hollywood, è chirurgicamente accompagnato dalle musiche di John Williams (che poi sarà autore delle colonne sonore della saga di "Star Wars", tra le tante) e riescono ottimamente a farci percepire una minaccia che non vediamo ma che possiamo solo avvertire; lo squalo che si avvicina lento e inesorabilmente minaccioso verso le proprie vittime. Verna Fields e John Williams otterranno entrambi l’Oscar nel 1976, rispettivamente la prima al miglior montaggio e il secondo alla miglior colonna sonora. Ultimo inciso, la sequenza iniziale è stata ripresa prima che i modelli meccanici dello squalo si guastassero.


Punto terzo: il successo del romanzo. Tutto il film è basato sul romanzo “Jaws” di Peter Benchley, 1974, bestseller dalle vendite mostruose dell’epoca. Lo spettatore comune era attratto più dal fatto che si trattasse del film basato sul romanzo “Jaws” e non tanto dal fatto che si trattasse del primo film di un certo Steven Spielberg, che all’epoca era poco più di un dilettante allo sbaraglio. Oggi siamo abituati ad abbinare “Jaws” con il connubio film-regista (“Jaws” di Steven Spielberg), ma nel 1975 “Jaws” non era altro che il nuovo film Universal di cui tutti avevano paura. Lo spettatore in sala era più attratto dal fatto che si trattasse del nuovo film horror Universal, e quindi dalla garanzia di assistere ad un horror ben fatto, e non tanto dal fatto che fosse un film di Spielberg. 


Punto quarto: la sceneggiatura. Prima di montare, riprendere, comporre e vendere, un film deve essere anche sceneggiato. La sceneggiatura comprende tutto quel che bisogna sapere su di un film, sia per quanto riguarda la sua organizzazione sia per quanto riguarda il suo script. Peter Benchley compose una bozza di sceneggiatura su richiesta dei due produttori del film, ma il risultato finale fu un po’ insoddisfacente. Uno sceneggiatore lavora per immagini semplici e non per didascalie elaborate, come invece fa lo scrittore. Peter Benchley aveva elaborato uno script didascalico, denso di parole, lungo ma comunque ben scritto. Il problema era proprio il fatto che fosse privo di immagini evocative. Carl Gottlieb, lo sceneggiatore vero e proprio che fu chiamato dai produttori, dovette rifare completamente lo script. Fu lui a suggerire una maggior presenza dello squalo nel film rispetto al romanzo e a Spielberg piacque l’idea, che la adottò e poi trasformò a forza nel girato finale. Se “Jaws” ebbe successo il merito va anche a Carl Gottlieb per il modo in cui ha orchestrato la sceneggiatura. Alla fine però il lavoro fu attribuito ad entrambi.


Punto quinto: il marketing. Il vero aspetto per cui “Jaws” è ricordato. Innanzitutto, per l’epoca, ricevette una copertura estremamente elevata e questo aumentò l’incasso nel breve periodo. Quando il film iniziò a diventare un fenomeno e smise di essere un’attrazione, Zanuch e Brown elaborarono una ingegnosa campagna di marketing, con tanto di pubblicità televisive, merchandising brandizzato a tema, suppellettili varie e molto altro ancora. Oggi sembra quasi scontato essere circondati dal merchandise di qualcosa ma, per l’epoca, fu innovativo. Il marketing permise a “Jaws” di diventare un mostro d’incassi ed è per questo motivo che oggi è considerato il primo blockbuster dell’era moderna nonché il prototipo perfetto del blockbuster Hollywoodiano.


Articolo redatto da Rickers

sabato 11 novembre 2023

Il mese dell'economia: la crisi finanziaria del 2008


Recensione redatta da Valerkis

Riaprendo il mio libro di “Economia politica” dell'università notavo un tratto che diceva come l’interesse per l’economia sia sorto, nell’ultimo decennio soprattutto, da un evento in particolare che tratterò quest’oggi: la crisi finanziaria del 2008. Prima dobbiamo segnare una data: 15 settembre 2008, fallisce la “Lehman Brothers” famosa banca d’investimento statunitense che dichiarò fallimento a causa di mancati aiuti di stato e dai privati. Questa, come molte banche, concesse i famosi “mutui subprime”, ovvero dei mutui “ad alto rischio” che venivano concessi a soggetti che non avevano garanzie e quindi avevano una riscossione del credito pari a zero. Inoltre ci furono situazioni dove passarono dal tasso fisso al tasso variabile, oltre ad altre caratteristiche che non sto qui ad elencarvi (se volete approfondire la questione, consultate la sitografia alla fine).

Passiamo alla trama (tratta dal libro di Michael Lewis, “Il Grande Scoperto”): il film racconta vicende realmente accadute e abbiamo vari personaggi interpretati da un cast decisamente buono composto da: Christian Bale, Steve Carell, Ryan Gosling e Brad Pitt. Almeno questi sono i nostri protagonisti! Il primo che incontriamo è Michael Burry (Christian Bale) che nel 2005 ha deciso di scommettere su una prospettiva del mercato immobiliare (sarebbe crollato nel giro di due anni) attraverso dei CDS (sono degli swap, ovvero dei contratti, che fungono da assicurazione finanziaria sul rischio); poi abbiamo Mark Baum (Steve Carell), un trader che viene contattato da Jared Vennett (Ryan Gosling) che vorrebbe investire sui CDO (obbligazioni di debito collateralizzate, che illudono in un ipotetico investimento per la “falsa” valutazione alta e invece sono molto rischiose, con un rimborso che va contro le aspettative); per arrivare infine a Ben Rickert (Brad Pitt) che è entrato in contatto con due giovani investitori Charlie e Jamie (interpretati rispettivamente da John Magaro e da Finn Wittrock) permettendo loro di creare un “affare sporco” a tutti gli effetti, scommettendo sul fallimento delle persone comuni e delle famiglie che hanno alle spalle un mutuo per la casa o i risparmi di una vita.

So che vi sto confondendo, infatti mi fermo e vado con la mia opinione sul film. È un film fatto benissimo, regia eccezionale quella di Adam McKay, molto dinamica e diretta. Si può reputare un film difficile per comprendere tutto il giro manipolato da queste “menti”, ma in fin dei conti la conclusione è unica: loro ci hanno guadagnato, analizzando i dati e con i propri metodi, scommettendo sul fallimento delle famiglie e appunto chi ha subito si è ritrovato senza nulla. Interpretazioni ottime e immediate da parte di tutti, anche da attori che hanno interpretato personaggi secondari, che non cito perché poco rilevanti, a mio parere. Questo film ha vinto il Premio Oscar alla miglior sceneggiatura non originale (scritta dal regista e da Charles Randolph) tutto sommato meritato perché comunque ha fatto risaltare tutte le conseguenze generate sia da un lato sia dall’altro e alla fine diventa anche emotivamente tosto da digerire di come tutto ha avuto un balzo e un crollo allo stesso momento, soprattutto quest’ultimo. Inoltre è stata anche abbastanza esilarante e con ciò ha alleggerito notevolmente la vicenda. Ammetto che far parlare personaggi come Margot Robbie e Selena Gomez di economia, non credo sia stato molto credibile (sfiderei chiunque abbia visto questo film che mi dica sia stato attento a seguirle). La battutina di turno la dovevo fare, ma il discorso vale anche per lo chef Anthony Bourdain. Ma allora Richard Thaler? È un economista, più credibile di lui? Eh ma non so, la scena in cui ha parlato non era propriamente azzeccata. Comunque quello che dice un economista, può essere una legge ma è relativa date le numerose analisi, opinioni che fanno e le scuole di pensiero economiche! Come questa recensione, non è assoluta perché é un’opinione fra tante. Sono solito a commentare aspetti come fotografia e musiche, ma qui non spenderò parole perché sono state semplici (fotografia curata da Barry Ackroyd e musiche da Nicholas Britell), ma proprio due parole sul montaggio le spenderei volentieri, per il fatto che sia riuscito a bilanciarsi con la regia dinamica di McKay e creando qualcosa per nulla sproporzionato. Buono il lavoro svolto da Hank Corwin.

Il film va visto per cercare di capire cosa è accaduto dietro ad una crisi internazionale come quella del 2008 e di come due, tre, se non quattro generazioni di persone abbiano vissuto questo brutto periodo ricaduto sulla credibilità delle banche e sul mercato immobiliare, azionario e tutto ciò ad essi collegati (situazione dei risparmiatori inclusa). Bisogna stare attenti a chi affidiamo i nostri risparmi e a come gira l’economia e la realtà. Con questa storia triste, in fondo, McKay è riuscito a trasmettere il concetto. Anche di come sia tutto ingiusto agli occhi dei piccoli risparmiatori e di chi ha sacrificato tanto.


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