sabato 24 dicembre 2022

BUON NATALE A TUTTI!

 


Recensione redatta da Valerkis

Fermi tutti! So cosa state pensando: “Perché mi sei caduto così in basso?”, “Fai sul serio o stai scherzando?”, “Stai recensendo un cinepanettone?”. Iniziamo col dire che il “cinepanettone” nel nostro paese è un tipo di commedia discusso da sempre, soprattutto in questo periodo: una fetta degli italiani lo odia, una fetta dicono che il primo sia intoccabile (quello del 1983 firmato Carlo Vanzina) rispetto a tutti gli altri e c’è una fetta che proprio non ne può fare a meno di vederlo

Io invece approfitterò del giorno di Natale per recensire il mio cinepanettone preferito ed esprimere il mio parere su questa categoria di commedia all’italiana. 

Per me il cinepanettone è un genere puramente commerciale mettendo come ambientazione principale la festività natalizia, per poi buttarci una storia che alla fine si ripresenta sempre la stessa: corna, battute che le direbbero quotidianamente quattro amici al bar e voglia di fare sesso occasionale. Giusto? O mi sbaglio? Comunque ne ho visti molti, non tutti e per me il migliore rimarrà questo che sto per recensire. Molti categorizzano cinepanettoni persino i film di Pieraccioni, i film della saga del Ragioniere Ugo Fantozzi e film come, ad esempio, “I Pompieri” e “S.P.Q.R. 2000 e ½ anni fa”. Se si chiamano “cinepanettoni”, come ho detto prima, devono avere come ambientazione principale la festività natalizia e poi buttarci la storiella. Non vale solamente perché è uscito in concorrenza con i classici “Boldi-De Sica”. Allora anche i film di Verdone sarebbero dei “cinepanettoni”? E Checco Zalone? Dato che uscivano sotto Natale! Ma non mischiamo ciò che ha un valore con qualcosa di “puramente commerciale”, per non dire qualcos’altro!

Vorrei iniziare la recensione di questo film con un aneddoto scritto da Neri Parenti, il regista e sceneggiatore del film, nel suo libro: “Due Palle…di Natale”:

“La partenza dell’aereo era nel tardo pomeriggio e la produzione decise di ottimizzare la giornata con una scena da girare nella sala vip Alitalia dell’aeroporto di Fiumicino, che avremmo spacciato per una sala dell’aeroporto John Fitzgerald Kennedy. Il reparto di scenografia si prodigò per fare apparire quella sala d’attesa romana la più newyorkese possibile. […] Le riprese in aeroporto erano quasi finite, non vedevamo l’ora di salire sull’aereo per New York, quando su uno schermo fuori dalla sala vanno in onda immagini terribili di aerei che si schiantano contro le Torri Gemelle. Era l’11 settembre del 2001”.

Ebbene sì, quell’anno doveva essere “Natale a New York” ma dopo ciò che era successo, la produzione cambiò località, direzione nord Europa, precisamente ad Amsterdam, dato che gli Stati Uniti in quel periodo stava per dichiarare guerra ai terroristi islamici. 

Ora passiamo alla trama: Fabio Trivellone (interpretato da Christian De Sica) è un pilota di aerei (e credo parlare di aerei in quel periodo, era meglio evitare) e vive una vita stupenda tra lavoro e vita coniugale. Sua moglie, o meglio, le sue mogli Selvaggia (interpretata da Paula Vàzquez) e Serena (interpretata da Emanuela Folliero) sono due persone differenti: la prima più sensuale, energica, simpatica e abbastanza “laissez faire”, come direbbero gli economisti liberisti francesi e con una figlia, Martina (interpretata da Sarah Calogero). L’altra, più calma, tradizionale e con un figlio, Matteo (interpretato da Marco Iannone). Il buon Trivellone sta per partire direzione Amsterdam dove insieme a Serena e Matteo trascorreranno le vacanze e come mai potrebbe andare? Questa è solo una parte della trama, perché poi arriva Enrico Carli (interpretato da Massimo Boldi). Lui è un imprenditore, o meglio un “succube” della moglie Marisa (interpretata da Marta De Pablo) e la loro figlia Michela (interpretata da Lucia Jordan) si deve sposare e per varie complicazioni, Enrico insieme al futuro genero Cesare Mandrione (interpretato da Enzo Salvi o meglio “Er Cipolla”) sono costretti a fare il viaggio di nozze ad Amsterdam. Appunto, nella capitale olandese avvengono vari equivoci, dai momenti esilaranti a quei momenti rivisti e ripetuti, considerati “trash”.  Ma aspettate, mi sto dimenticando di loro e come posso non citarli dopo aver rivisto i loro sketch divertenti. Sto parlando dei “Fichi d’India” e come non porre nuovamente la mia gratitudine verso il loro stile comico e ricordando soprattutto Bruno Arena, scomparso dopo quasi dieci anni di malattia lo scorso 27 settembre (quando ho letto la notizia in metropolitana sono rimasto abbastanza sconvolto e mi si è chiusa definitivamente un’altra pagina della mia infanzia: il duo in sé e i loro sketch). Insomma, i “Fichi d’India” lavorano come necrofori e stanno andando ad Amsterdam per chiudere un affare, ma immaginate voi come andrà a finire anche questo. Non può mancare la ciliegina sulla torta, con Biagio Izzo che interpreta il receptionist dell’albergo in preda ai suoi doppi sensi e immaginazioni folli. In fondo, gli sceneggiatori (Neri Parenti, Fausto Brizzi, Lorenzo De Luca, Marco Martani) volevano lanciare dei piccoli messaggi in merito alla tematica dell’omosessualità con questo personaggio e i suoi comportamenti, nella maniera più goliardica possibile.  

Neri Parenti ha segnato sicuramente (nel bene e/o nel male) una fetta nella storia della commedia italiana, iniziando un’enorme collaborazione con Paolo Villaggio per i film di Fantozzi e di Fracchia (e non solo) per arrivare ai cinepanettoni più o meno esilaranti. Dato che parliamo di commedia all’italiana la regia si è decisamente limitata alla semplicità nel proprio lavoro. Stessa cosa vale per la stesura della sceneggiatura e la recitazione, divertente per le situazioni capitate ai vari personaggi quanto meno per le solite battute. Comunque sia, in quel periodo trasmettere un po’ di allegria al pubblico italiano (e occidentale), anche con un pizzico di “trash”, era l’unico modo per estraniarsi dalla drammatica realtà di quel periodo e dare un senso positivo al Natale di quell’anno maledetto. La coppia “Boldi-De Sica” ammetto che me l’aspettavo più presente in questa vicenda ma per quel poco di scene dove entrambi si trovano insieme sono state nel complesso esilaranti e sempre con un pizzico di rivalità tra la comicità milanese e la comicità romana. Per quanto riguarda la Vàzquez ha puntato veramente poco sulla sensualità, ovvero ha assunto pochissimo quegli atteggiamenti dalla classica ragazza che può considerarsi la “bella di turno” e rimanendo in linea con l’interpretare una moglie onnipresente per suo marito. Particolare apprezzato, sinceramente! La Folliero, in quel periodo, è stata un’icona della televisione italiana sia come conduttrice televisiva sia come “signorina buonasera” e per me il fatto di affidarle una parte è stato principalmente per rendere “immortale” un’icona. I “Fichi d’India” mitici e per quanto riguarda i ragazzi (Iannone e la Calogero) sono stati nel complesso moderati alla loro prima apparizione sul grande schermo.

Vorrei fare un paio di considerazioni (forse anche inutili): primo la collaborazione di questo film con una società pubblica italiana, ormai storica, come l’Alitalia (citata a caratteri cubitali nei titoli di coda) adesso è solo che un ricordo se non prezioso, dato che negli ultimi anni la crisi finanziaria dell'impresa è stata spesso oggetto di discussione  tra istituzioni e opinione pubblica. Secondo, la scena di Salvi che esulta per il goal di Totti è il segno di come quell'anno sia stato caratterizzato dalla vittoria dello scudetto da parte della squadra giallo-rossa.

Questo è il mio cinepanettone preferito di quelli che sono riuscito a vedere e con questo vi faccio i più sentiti auguri per un sereno Natale.


Sitografia aneddoto Neri Parenti: https://www.noidegli8090.com/merry-christmas-doveva-essere-natale-a-new-york-come-lattentato-dell11-settembre-2001-cambio-tutto/



venerdì 23 dicembre 2022

E SE VI DICESSI CHE UN FILM RACCHIUDE DELLE VECCHIE GLORIE, VOI NON LO ANDRESTE A GUARDARE IMMEDIATAMENTE?

Recensione redatta da Rickers



Per una persona appassionata di videogiochi, come me, è sempre bello parlare di tutto ciò che riguarda quel mondo. Il film di cui parlerò a breve riflette in pieno questa mia affermazione.

Io sono un videogiocatore da quando avevo più o meno 6 o 7 anni e, da allora fino ad oggi, i videogiochi hanno contribuito ad arricchire il mio tempo libero e a formarmi come bambino e come adolescente. Da piccolo non badavo troppo al passato, ma più che altro mi soffermavo su quello che era il presente, tuttavia nel corso degli anni ho approfondito molto le mie conoscenze in ambito videoludico venendo a conoscenza delle vecchie glorie del passato: “Pac-Man”, “Space Invaders”, “Super Mario”, “Donkey Kong”, “Duck Hunt”, “Tetris”, “Arkanoid” solo per citare alcuni nomi.

E se vi dicessi che esiste un film che racchiude tutte queste glorie, voi non lo andreste a guardare immediatamente?

“Pixels” nasce con questa premessa. Un film che nasce senza troppe pretese con il mero obiettivo di accaparrarsi quanto più nostalgici della generazione videoludica degli anni 80’, quella stessa generazione che ha conosciuto e giocato le vecchie glorie sopra citate.

La trama di “Pixels” è quanto di più fuori di testa possiate mai pensare. Il film inizia nel 1982. Il giovane Sam Brenner (interpretato da Adam Sandler) e il suo migliore amico William Cooper (interpretato da Kevin James) partecipano ad un concorso in cui la NASA invierà immagini e filmati della cultura videoludica nello spazio tramite una capsula del tempo. Chiunque vincerà il concorso potrà scolpire il suo nome nella storia dei videogiochi. A contendersi la vittoria sono Sam e Eddie Plant (interpretato da Peter Dinklage) ma a spuntarla è Eddie. Anni più tardi, nel 2015, la Terra subisce un massiccio attacco alieno. Si viene a scoprire che gli alieni hanno intercettato la capsula e convinti che l’umanità abbia dichiarato loro guerra hanno iniziato l’attacco, usando come armi gli stessi videogiochi creati dagli umani. Viene subito allestita una squadra speciale di ex videogiocatori e esperti informatici, di cui Sam fa parte, la quale dovrà far fronte all’emergenza.

Il film è abbastanza incasinato, ma in senso buono. Già la trama è totalmente malata, ma dal punto di vista più positivo del termine. È una “pazzia” che funziona perché mirata a creare goliardia a causa della sua assurdità. Il film, e tutte le sue premesse, non parte con serie intenzioni, anzi. Il film funziona, dal punto di vista della scrittura, proprio perché non vuole farsi prendere sul serio. Il girato (regia di Chris Columbus) è stato curato abbastanza bene (con molte lacune, come è ovvio in queste genere di film) ma contribuisce a rendere questo film divertente al punto giusto. Il recitato anche funziona, ma poteva offrire molto di più. A partire da Dinklage, sottotono e molto al di sotto delle sue altissime capacità, anche Sandler non mi ha troppo entusiasmato nonostante mi ritenga un suo grandissimo estimatore. Il resto del cast, che comprendeva anche Michelle Monaghan, Josh Gad, Jane Krakowski, Sean Bean, Ashley Benson, Denis Akiyama (che interpreta Tohru Iwatani, il creatore di Pac-Man) e in un cameo anche Serena Williams, famosissima tennista, non ha di certo impressionato, offrendo però una prova mediocre ma funzionale al tipo di pellicola proposta.

Le musiche sono curate da Henry Jackman. Jackman è senza dubbio un elemento di grande spessore dato che ha lavorato con nomi come Mike Oldfield, Elton John e Hans Zimmer; inoltre ha curato le musiche di molti altri film tra cui “Monsters vs. Aliens” (2009), i due “Kick-Ass” (2010 e 2013), “Ralph Spaccatutto” (2012), “Turbo” (2013), “Big Hero 6” (2014) e che dopo “Pixels” avrebbe realizzato anche quelle di “Uncharted 4: Fine di un Ladro” (2016) e di “Ralph Spacca Internet” (2018). Dalle sue musiche mi sarei aspettato molto di più. Spezzo una lancia in favore del doppiaggio localizzato, ben confezionato e convincente in ogni scena.

In definitiva, “Pixels” non nasce con nessuna premessa in particolare e questo è il suo punto a favore. Il film funziona molto bene come pellicola demenziale e grottesca, meno come un film “normale”. Non montatevi troppe aspettative perché rimarrete delusi non poco. Recitato non ottimale, musiche convincenti ma anonime e una storia abbastanza malata rendono questo film non adatto a tutti. Concludendo, film sufficiente ma niente di più.

mercoledì 14 dicembre 2022

Siamo tutti nostalgici, ma fa male…molto male




Recensione redatta da Valerkis

Con questa recensione cominceremo a trattare i film di un'altra firma del cinema italiano, proviene da Napoli e ha raffigurato spesso, se non sempre, la sua città. La firma in questione si chiama Mario Martone. Ho ammirato due suoi film prima di questo che sto per recensire:  “Il giovane favoloso” e “Il sindaco del Rione Sanità”. Ho visto anche “Capri Revolution” ma è stato secondo me sopravvalutato per certi versi.

Ma parliamo di “Nostalgia”: tratto dal romanzo di Ermanno Rea, la vicenda racconta di Felice (interpretato da Pierfrancesco Favino) che ritorna a Napoli dopo praticamente un’eternità all'estero dove ha vissuto, ha cambiato vita e lavora dignitosamente. Ritornato nella sua città natale, ritrova come tutto sommato Napoli è sempre stata: bella come caotica e con le sue tradizioni e i suoi lati oscuri. Il ritorno sarà turbolento per tanti motivi, partendo da sua madre Teresa (interpretata da Aurora Quattrocchi) che la trova in pieno disagio con l’unico obiettivo quello di sopravvivere. Poi incontrerà un altro personaggio, diciamo l’aiutante per eccellenza di questa storia, Don Luigi (interpretato da Francesco Di Leva), che lo accompagnerà in questo suo improvviso rientro e così Felice non sarà solo in quella bellissima città per la storia, il mare e le tradizioni ma ingarbugliata e pericolosa per le sue trappole. Ma non solo Don Luigi gli terrà compagnia, anche Raffaele (interpretato da Nello Mescia) un conoscente della madre dove grazie a lui trascorrerà delle esilaranti chiacchierate e riuscirà a trovare un suo amico di vecchia data, Oreste Spasiano (interpretato da Tommaso Ragno), motivo per il quale principalmente Felice era tornato, oltre a ritrovare la madre. Forse questa visita all’ “amico” non sarà una semplice trovata come potremmo immaginare…

La nostalgia la proviamo tutti, chi più chi meno: i momenti florei della nostra vita, l’infanzia, l’adolescenza, il divertimento e in fondo troviamo anche i momenti più bui che ci hanno lasciato delle cicatrici e magari ci hanno cambiato e fatto crescere. Ma la nostalgia sta in particolare in quel periodo della vita dove sembrava tutto così facile e divertente, essendo quasi intoccabili, soprattutto in qualche “ragazzata”. 

Il cast è stato veramente buono, a partire dal buon Favino oramai con un’esperienza esauriente nella sua carriera e capace di interpretare in qualsiasi genere cinematografico (polizieschi, sportivi, gialli, comici, drammatici…). Arrivando successivamente ad un inaspettato Francesco Di Leva, cresciuto di tanto rispetto al “Sindaco del Rione Sanità” diventando così più deciso e determinato nel suo stile recitativo. Tommaso Ragno con il suo aspetto rozzo, ha rappresentato perfettamente il personaggio misterioso e crudele della vicenda e per arrivare infine ad Aurora Quattrocchi e Nello Mescia, considerati dei buoni contorni alla storia. Tornando a Favino, devo i miei complimenti per essere riuscito a rendere credibile l’accento islamico, pensando per un attimo che avesse combinato qualcosa alle sue corde vocali e per poi esplodere nella parlata napoletana (va be dai parliamo con colui che è riuscito a far risorgere Bettino Craxi per filo e per segno. Futura recensione di quel film, promesso!). Sembra banale quest’ultimo concetto, ma se quel cambio di voce veniva effettuato malamente era considerata solo una brutta imitazione. Per favore non scrivete lingua originale solo “italiano”, aggiungete “dialetto napoletano” perché l’80% dei discorsi sono tutti in dialetto, anche abbastanza stretto, rendendo così i dialoghi più popolari possibili, come ha voluto in fondo Martone, secondo me. Ribadisco, veramente immenso Favino, nelle sue decisioni, convinzioni e nostalgie. 

Mario Martone è stato un regista capace nel raffigurare perfettamente Napoli tra le varie strade, il paesaggio, il caos ma ciò è merito anche della fotografia firmata Paolo Carnera, che ha reso tutta questa atmosfera unica e immensa. Veramente un lavoro affascinante quello tra regista e fotografo. La sceneggiatura (scritta da Martone e Ippolita Di Majo) andrebbe rivista su certi aspetti: in primis avrei aggiunto un incipit per far arrivare in una maniera più cauta (a livello di tempistica) lo spettatore a quello che avrebbe visto e invece inizia subito con Favino in arrivo dall’estero e riprese di lui che gira da solo, buttate lì. Le riprese di lui mi sono piaciute, lo ammetto, ma non con quella velocità eccessiva. Secondo, avrei evitato le scene dove lui prega “Allah” perché non ho compreso bene se era islamico oppure influenzato da quella cultura, faceva delle preghiere relative. Secondo me, se il personaggio veniva considerato islamico, andava rivisto anche il primo contatto diretto tra il personaggio di Favino e di Di Leva. Perdonate la mia schizzinosità, ma sono dell’idea che sulla religione bisogna andarci cauti e dire cose precise e autentiche, altrimenti è meglio non raccontare eresie. Terzo, e ultimo promesso, la morale è decisamente scontata e questo pesa molto, perché purtroppo alla fine il film non mi ha trasmesso nulla, o meglio poco. Perché, in fondo, ho ammirato la bravura degli attori, l’ottimo rapporto tra regia e fotografia ma non è stato quel film dove il mio cuore ha percepito tante emozioni. Però, giocando con il concetto di “nostalgia”, questo film riesce a trasmettere un minimo di quelle sensazioni di paura, mistero e di dramma psicologico puro. 

Infine vogliamo nominare Ursula Patzak, ai costumi? Sì, perché è un’autentica firma del cinema italiano, vincendo quattro statuette ai David di Donatello, confermando con questo film la buona collaborazione tra Martone e la costumista tedesca e direi anche no, perché sono stati utilizzati costumi semplici, della quotidianità, nulla di particolarmente eccezionale. Allora se ho nominato l’ottimo lavoro di Carnera, va nominato anche Carmine Guarino alla scenografia, per la sua collaborazione nel rendere il paesaggio come quello di Napoli unico e nostalgico, come d’altronde quel luogo è stato per il nostro Felice.


sabato 10 dicembre 2022

IMMAGINARE IL MONDO DI 7 ANNI FA (MA NEL 1989)

Recensione redatta da Rickers


Dopo la bellezza di quasi OTTO mesi esatti da quel 22 aprile (andatevi a rivedere il post) sono tornato a parlarvi di una saga a me molto cara, quella di “Ritorno al Futuro”. Parlare di questa saga è sempre una grandissima emozione, per me, per via dell’importanza storica e culturale di questa saga, il che costituisce anche un grande onore. Con questo post cercherò di rimediare ad una attesa così lunga. Ovviamente vi invito a riprendere il precedente post sul primo “Ritorno al Futuro”.

Riprendendo tranquillamente tutta la premessa fatta nel post precedente, aggiungo solamente che in seguito al successo inaspettato, quanto strabordante del primo film, la critica e il pubblico gridava disperatamente ad un seguito. Regista sempre Robert Zemeckis, il secondo “Ritorno al Futuro” riprende le vicende esattamente da dove si erano concluse le vicende del primo film.

Marty e Doc tornano dal 1955, ma scoprono che con le loro azioni hanno stravolto il mondo che hanno lasciato nel 1985. I due dovranno viaggiare avanti nel futuro, precisamente nel 2015, per scoprire la causa del cambiamento e porre rimedio a tutta la faccenda. La trama proposta ha rappresentato un bell’esperimento per l’epoca, ancora di più del primo film, oltre che un perfetto esempio di come integrare una storia originale ad una ambientazione interessante. Regia curata molto bene, con dettagli e grande risalto scenico.

Cast in gran parte “riciclato” dal primo film, ma che grazie a esperienza maturata sul set, alchimia pregressa e bravura riesce a reinventarsi e a differenziarsi dal primo film.

Musiche ancora una volta curate da Alan Silvestri; esse non differiscono troppo da quelle del primo film, ma riescono comunque ad integrarsi bene con la pellicola, mescolandosi con l’ambiente e i personaggi.

Parlare di “Ritorno al Futuro – Parte II” senza incappare in paragoni col suo predecessore è praticamente impossibile e penso che lo abbiate notato. Preso da solo questo film risulta essere nel complesso assolutamente positivo e anche integrandolo con il resto della saga risulta avere una propria armonia definita. Tuttavia, mettendolo in relazione solamente con il primo “Ritorno al Futuro”, il film stona parecchio. Non tanto perché sia un brutto film, più che altro perché non risulta essere una vera e propria continuazione alla storia, cosa che in realtà avrebbe dovuto essere. Nel complesso risulta però essere un film ben al di sopra della sufficienza, anche se nettamente inferiore al primo capitolo della saga.

venerdì 2 dicembre 2022

Tre amici in un percorso modico, fragile e sfigurato




Recensione redatta da Valerkis

Il titolo del film può essere interpretato in varie maniere, dipende dalle situazioni che ci capitano nella vita di ognuno di noi, ma nel caso di ciò tratterò una vicenda veramente inimmaginabile, quasi esagerata e a pensarci bene non credo questo sia l’unico soggetto trattante un argomento del genere. Mark Romanek, il regista del film, ha diretto la storia tratta dal romanzo omonimo di Kazuo Ishiguro e ha diretto i tre personaggi principali secondo il riadattamento cinematografico curato da Alex Garland e perciò, anche qui, mi esprimerò solamente per quello che ho visto.

Primo concetto da dire è inerente al periodo storico, importante per l’ambientazione della vicenda ma poteva essere esplicitato meglio. Comunque la vicenda narra la vita di varie persone seguite da autorità diligenti dell’istituto in cui si trovano. Queste autorità insegnavano varie discipline, utili per la vita, conducendo queste persone al futuro che spetterà a loro. Vengono seguite da quando sono bambini finché non diventano dei giovani adulti. Il futuro sarà sempre un mistero e quando comprenderanno la vera essenza del loro destino sarà come se la vita abbia preso all’improvviso un percorso modico, fragile e sfigurato. La paura è dietro l’angolo e non si vorrebbe mai arrivare al momento chiave di tutta la storia ma questo è il riflesso della vita, pensando troppo a quello che spetterà non si dà senso all’attimo e quindi al presente. I tre protagonisti sono Kathy (interpretata da Carey Mulligan), Ruth (interpretata da Keira Knightley) e Tommy (interpretato da Andrew Garfield). Ognuno è stato fondamentale per l’altro dato che sono cresciuti insieme e diventati adulti, arrivando insieme al loro scopo per cui nel mondo erano presenti. Altri personaggi importanti sono stati Miss Lucy, la tutrice del loro periodo infantile/preadolescenziale (interpretata da Sally Hawkins) che considererei uno dei personaggi più importanti della vicenda, se non il personaggio chiave della storia. Anche Madame (interpretata da Nathalie Richard) ha avuto la sua importanza mostrandosi come un personaggio freddo che se non fosse stato per il proprio compito “burocratico” (chiamiamolo così) forse sarebbe stata una buona aiutante per i protagonisti.

È tutto così freddo, agghiacciante, triste e pesante. Però la pesantezza non è stata eccessiva, soprattutto nella prima metà del film e per me Alex Garland, in questa parte, non è riuscito a gestire i tempi morti, inutili e anche noiosi. Ma ad un certo punto, verso la seconda metà della storia e quindi avvicinandosi alla fine, è diventato più brutto ma interessante nel vedere i protagonisti definirsi “umani”, mostrando le loro fragilità ed emozioni percepite nei momenti di disperazione e di delusione sul senso della vita. 

Sono stati tre attori capaci nella propria interpretazione ma solo uno mi ha colpito notevolmente, Andrew Garfield. Di lui ho presente solo la sua interpretazione nella saga di “The Amazing Spider-Man”, ma in questo film si è mostrato come un attore, anche nel minimo dettaglio, può definirsi tale ed è stato il personaggio più interessante della vicenda perché comunque nella sua vita insignificante ha voluto dare concretamente un senso e ha voluto essere importante per qualcuno, ovvero per le sue amiche Kathy e Ruth.

Non mi sarei aspettato un film del genere ambientato in un passato neanche lontano e non saprei dire se il contesto storico era azzeccato oppure sbagliato. Di solito si ipotizza l’ambientazione in un tempo futuro, per quello che è stato fatto ai protagonisti come il risultato di un’evoluzione nella ricerca scientifica e tecnologica. In poche parole starei dicendo che mi sarei aspettato una storia più fantascientifica oppure una storia dove poteva esserci qualche scena più misteriosa e magari il film avrebbe assunto una sfumatura vera e propria del genere “giallo”.

Mark Romanek è stato direttore di una storia per metà abbastanza statica per poi esplodere di emozioni andando verso la fine. Nel complesso, per me, la sceneggiatura è stata più che discreta nella sua elaborazione di contenuti, ambientazioni e contorni sensitivi. Tre ragazzi, gli attori, stupendi nella loro disperazione ma Andrew Garfield ha avuto una marcia in più, rispetto a tutti, volendo quasi gridare insieme a lui. Adam Kimmel ha firmato una fotografia avanzata e completa rappresentando la tetraggine e la speranza, le due sensazioni principali di questa vicenda e Rachel Portman è riuscita a portare una colonna sonora quasi classica, accompagnante le sensazioni descritte. 

Mi sarei aspettato qualche colpo di scena in più nella storia, ma è stato affascinante così, anche perché se il romanzo è raccontato più o meno come il film allora non posso dire nient’altro. Guardatelo per soffrire e per capire infine cosa? Tutto o niente, d’altronde “Non lasciarmi” può indicare tutto quanto un accaduto o niente di ciò che ho appena detto.





venerdì 25 novembre 2022

Una piccola perla che racchiude in sé una marea di emozioni



Recensione redatta da Valerkis e Rickers

Il “ragazzo dal kimono d’oro” (Kim Rossi Stuart) ritorna dietro la macchina da presa dopo sei anni dal suo secondo film in carriera da regista. In questo 2022 ricco di aspettative e di novità cinematografiche riporta quello che in un modo o in un altro può definirsi un genere “western”, oppure lo definiremo meglio un “western-dramma psicologico”. 

Kim Rossi Stuart, regista e principale interprete di questa piccola perla, ha saputo confezionare sapientemente un’opera che racchiude in sé una marea di emozioni. “Brado” è un film che ci ha stupito e colpito nel profondo, ma inoltre ci ha fatto riflettere su molti aspetti della vita.

La trama segue le vicende di Renato (interpretato da Kim Rossi Stuart) e del figlio Tommaso, per tutti “Tommi” (interpretato da Saul Nanni). Entrambi vivono un rapporto in crisi. Tommi, infatti, non vuole avere a che fare col padre e Renato si occupa della sua passione per i cavalli, tanto è vero che ha aperto un centro equestre. Tuttavia ormai quel suo centro, in cui aveva speso lacrime e sudore, è ridotto all’ombra di sé stesso con Renato, specchio della condizione di un luogo abbandonato al proprio destino. Tommi, spinto dai parenti, in particolare da Stefania, la madre (interpretata da Barbora Bobulova) e Viola, la sorella (interpretata da Federica Pocaterra) parte a trovare il padre al fine di aiutarlo con il ranch di famiglia. Per arrivare così alla conoscenza di Anna (interpretata da Viola Sofia Betti) un altro personaggio importante, soprattutto per Tommi, che aiuterà lui e Renato a raggiungere il loro obiettivo con i cavalli.

Mai ci era capitato di vedere un rapporto padre-figlio così ben sviluppato e sviscerato, quindi i primi complimenti vanno a Kim Rossi Stuart. 

Secondo il nostro parere, ci ha sorpreso come la storia non sia pronosticata ed è stata raccontata attraverso una percezione di dramma psicologico per nulla scontato. Anche la fotografia ha dato il suo contributo, risultata eccezionale nella rappresentazione degli ambienti semplici e campagnoli. Le riprese sono state affascinanti nel suo insieme, anche quando erano ambientate di notte dove non si vede veramente nulla e ci ha affascinato come abbia ripreso la muscolatura equina, risaltandola attraverso i riflessi della luce naturale. C’è un motivo dietro a questa scelta e con questo ha voluto trasmettere la forza e determinazione che ogni persona ha dato lavorando per questo film. Tutto merito della fotografia firmata Matteo Cocco, complimenti veramente! 

Secondo noi, Kim Rossi Stuart ha mostrato nel suo lavoro tre caratteristiche fondamentali: forza, volontà e orgoglio. Insomma ci ha regalato sensazioni di ogni genere, diventando mano a mano sempre più forti e dirette. In sostanza, più la storia proseguiva e più prendeva una strada emotivamente ricca di contenuti. Complimenti a tutti per l’ottimo lavoro svolto, soprattutto nella regia, sceneggiatura, fotografia e recitazione. 

“Brado” ha saputo farci sorridere, arrabbiare, coinvolgere attivamente nella vicenda e commuovere (il che non è da tutti…). Davvero una bellissima sorpresa che vi invitiamo a recuperare, perché merita davvero ogni singolo minuto passato nel vederlo. Grazie ancora Kim!

giovedì 17 novembre 2022

Tanti auguri Carlo!

 



Recensione redatta da Valerkis

Finalmente è arrivato uno dei momenti che tanto aspettavo di compiere su questo blog: scrivere la recensione di almeno un film di un personaggio che ha determinato la mia cultura cinematografica: Carlo Verdone.

Perché lui? Mi ricordo il primo film che vidi, avevo sette anni ed era il suo primo lungometraggio da regista (sto parlando di “Un sacco bello”). Rimasi colpito dai personaggi, dalla sua comicità romanesca e da come riusciva ad assumere i vari atteggiamenti e le varie sfacettature che ricoprono i vari aspetti della società. Come avete visto dalla locandina, non parlerò di quel film, ma di un altro ed è uno dei suoi film meglio riusciti, secondo il mio modesto parere, nella sua carriera da attore, regista e sceneggiatore. È il 2004, ha 54 anni e di esperienza ne ha. Insomma non è più il Verdone degli anni ’80, è maturo e cambia persino modo di fare il “suo cinema”.

Nel 2004, le nuove generazioni (i Millenials), ma anche qualcuno più grande, stavano conoscendo un nuovo mezzo di comunicazione e una nuova modalità di intraprendere rapporti sociali di vari tipi: Internet. Si stava diffondendo in una maniera incredibile e vi ricordo che il 2004 è stato l’anno di Facebook, il social network ideato da Mark Zuckerberg che fino a qualche anno fa era il social più utilzzato nel mondo.

Gilberto Mercuri (interpretato da Carlo Verdone) attraverso Internet decide di partecipare ad uno “speed-date” (nato alla fine degli anni novanta negli Stati Uniti e poi diffuso in Italia, dove degli uomini hanno pochi minuti per conquistare varie donne e una preferenza reciproca significa “bingo”). Ma ne sarà valsa la pena? Dipende dalle persone come riescono ad approcciare con l’altro sesso attraverso questa modalità. Ma la domanda vera è: “Conviene a più di cinquant’anni rimettersi in gioco?”. Si, ma attraverso altre maniere e forse anche più dignitose. A causa di un’indagine scattata e della scoperta di tutto, la moglie Tiziana (interpretata da Laura Morante) non accetta quello che ha fatto il marito. In questa situazione fragile ci finisce in modalità passiva la figlia diciassettenne Marta (interpretata da Lucia Ceracchi), la quale ha percepito il peso della separazione in una maniera non troppo rilevante, ripensando ai comportamenti all’interno del contesto famigliare da parte dell’uno e dell’altro genitore prima e durante la separazione. Questo va analizzato come in qualche modo tutto ciò possa influenzare le sue visioni nel proprio percorso di crescita. Gilberto viene aiutato in un momento così particolare della sua vita da due persone: Andrea (interpretato da Rodolfo Corsato) e Carlotta (interpretata da Stefania Rocca). La coppia Andrea-Carlotta sono stati gli aiutanti più presenti nella crisi di Gilberto dove agiscono nel pieno lato amichevole e spensierato. Vorrei citare un altro personaggio della storia, il suo amico Guido (interpretato da Antonio Catania) che rispecchia una gran parte delle azioni compiute dalle persone ovvero come si comportano “faccia a faccia” in un modo e “alle spalle” in un altro.

Se conoscete Verdone per i suoi classici personaggi, vi chiedo la cortesia di recuperare questo film e vedere un Carlo Verdone differente dai suoi soliti atteggiamenti comici e dal suo stile registico semplice ma completo di comicità. Come ho detto prima, ha più della mezz’età e giustamente ha voluto dare un senso al suo lavoro, così insieme a Francesca Marciano e Pasquale Plastino (alcuni dei suoi colleghi di fiducia) hanno scritto una storia bellissima facendomi amare ogni minima scena, dalle situazioni create ai singoli personaggi. A Verdone non si può dire nulla: è stato imponente dietro la macchina da presa e nel dirigere una squadra che ha giocato una buona partita. Non voglio che questo film venga fatto passare come la visione assoluta dell’amore, perché ognuno ha il suo punto di vista. Ma ripensando ad altri suoi film non c’è nessuno dove abbia trattato l’amore come in questa vicenda, in ogni sfumatura e in ogni fascia d’età (adolescenziale, giovane adulto e mezz’età).

Verdone ha sempre sottolineato come abbia lavorato nella sua carriera con tante attrici e qui gioca delle buone carte, se non ottime: Laura Morante, Stefania Rocca, Elisabetta Rocchetti (interpretante Carolina e insieme a Verdone hanno fatto, secondo me, la scena più comica di tutto il film), Orsetta De Rossi (interpretante Graziella, altro personaggio importante per Gilberto e per la vicenda), Gabriella Pession (interpretante la bizzarra Stella) e Lucia Ceracchi.

Oltre i complimenti a Verdone, le mie ovazioni vanno fatte alla Morante per l’ottima interpretazione di una donna in crisi coniugale e per questo ha ottenuto il Nastro d’Argento come miglior attrice protagonista e ottima interpretazione della Rocca di un personaggio ottimista e illusa al tempo stesso. Per il resto, ci sono stati personaggi passivi, di passaggio e sleali che hanno reso questo film attraente. La sceneggiatura è compatta e genuina nelle descrizioni e ambientazioni, tutto coerente anche simpatizzante per sdramatizzare la visione adottata da Verdone su un argomento delicato come l’amore. 

mercoledì 9 novembre 2022

Perdonami nonna, non ti congelerò!



Recensione redatta da Valerkis

Quando è uscito nelle sale, questo film l’ho giudicato dal titolo come strano, bizzarro e surreale. Ma che razza di film sarebbe? Ma davvero la commedia italiana è arrivata a questo punto? Tutte domande ignoranti da evitare assolutamente (come si dice: “Mai giudicare il libro dalla copertina!”) e intanto me le sono fatte. Ma mettiamo in riga la vicenda.

Ci sono due personaggi, due protagonisti, completamente differenti sia come personaggi sia come attori. Simone Recchia (interpretato da Fabio De Luigi) è un finanziere, considerato il migliore nei blitz anti-truffa ma dall’altra parte si sente frustrato nella sua vita perché non riesce ad ottenere la promozione ed è timido con le donne. Claudia Maria Lusi (interpretata da Miriam Leone) è una restauratrice di opere d’arte e minaccia che se non le finanzieranno la sua attività lavorativa, distruggerà un’opera importante, mostrando così la sua situazione instabile dal punto di vista lavorativo e neutra, se non insignificante, dal punto di vista affettivo. Ma allora la nonna? Chi è? È il personaggio chiave della storia, vive con Claudia ed è interpretata da Barbara Bouchet, una delle icone predominanti di quel genere conosciuto come “Commedia sexy all’italiana”. Truccata o no (ovviamente, che domanda) detiene ancora una buona presenza scenica nonostante i suoi 75 anni di età nel 2018. La Bouchet interpreta un personaggio che parla e agisce poco, però, nonostante la sua importanza. E poi viene congelata?

Ma come si incontrano i due personaggi principali? Attraverso un incontro casuale (o voluto da qualche segno del destino) durante un blitz di Simone, al punto da far scattare delle indagine effettuate nel pieno senso umoristico. Ma dopo varie battute e così approfondendo la conoscenza, ognuno entra nella vita dell’altro. Si instaura un rapporto sempre più confidenziale da parte di entrambi, iniziando nella maniera più timida possibile, soprattutto da parte di Claudia, dove era evidente come la paura era in preda ai suoi turbamenti.

Come ho detto prima, De Luigi e la Leone sono due attori completamente diversi perché hanno due stili recitativi completamente opposti, nonostante ci siano stati attimi, in particolare nel momento più intimo, dove percepivano la stessa emozione, la timidezza e raggiungendo così un punto di equilibrio nell’omogeneità recitativa. Diciamo che De Luigi nella sua timidezza ci ha messo un suo lato comico e buffo (alla fine lui proviene da quella branchia recitativa); la Leone ci ha messo la sua sensualità e la sua decisione femminile (per rispecchiare su come è riuscita ad entrare nel mondo dello spettacolo). Un passo che, in ogni modo, decreta una sua crescita nella carriera teatrale e cinematografica.

Giancarlo Fontana e Giuseppe Stasi hanno diretto una commedia leggera e nuova mettendo in risalto nella coppia De Luigi-Leone gli stereotipi classici di situazioni imbarazzanti sia normali sia dove i due si corteggiano, inserendo uno scenario ambiguo e misterioso, volendo far diventare quasi un giallo, ma purtroppo la vicenda sceneggiata da Fabio Bonifacci non mostra nemmeno un minimo aspetto di quella categoria. Però alla fine la storia ha decretato come l’amore vince sempre facendoti portare anche a fare cose che non vorresti oppure non sei abituato a fare (anche di illegale) e a questo il buon Simone l’ha mandato giù con difficoltà, ma per il bene dell’amore per Claudia e della sua attività lavorativa. Non è una sceneggiatura ben articolata, perché la storia non è complessa, anzi anche troppo semplice e se si fossero impegnati troppo sarebbe stato un film sopravvalutato, cosa che non è avvenuta (menomale) e alla fine è stata una direzione, quella della coppia Fontana-Stasi, discreta nel suo complesso e in quella che ha determinato la prosecuzione di tutto il lavoro.

sabato 5 novembre 2022

SCOMMETTERE TUTTO SU DEI DIAMANTI GREZZI

Recensione redatta da Rickers

Il film di cui voglio parlare oggi intreccia una gran varietà di emozioni. Parlare di un film di questo tipo è molto difficile perché grazie alla narrazione degli eventi e ai personaggi questa pellicola sa rendersi incredibilmente realistico. “Uncut Gems” o “Diamanti Grezzi” per chi vuole usare termini nostrani, è figlio della grande visione dei suoi registi, i fratelli Safdie, autori di un cinema che proprio grazie al realismo hanno saputo creare autentici capolavori, tra tutti “Good Time”.

Il cinema indipendente sa rendersi piacevoli agli occhi del cosiddetto pubblico “mainstream” e questo film ne è la prova più lampante. Attratto dalla visione del precedente “Good Time” (straordinario film sempre diretto dai fratelli Safdie e con protagonista un particolarmente ispirato Robert Pattinson), mi recai al cinema per la visione di “Uncut Gems”, progetto che coinvolgeva i due registi e Adam Sandler, attore che io adoro alla follia, ma anche altri nomi come Kevin Garnett, ex-cestista NBA, e The Weeknd, due nomi che onestamente hanno realmente alimentato la mia curiosità su questo progetto.

I fratelli Safdie si confermano grandi tessitori confezionando una storia fatta di avarizia, voglia di rischiare e amore famigliare. La trama, infatti, gira attorno a Howard Ratner, gioielliere di origine ebraica, che per estinguere i suoi numerosi debiti di gioco si ritrova a compiere un’ennessima scommessa che però potrebbe procurargli una grossa fortuna. Howard si ritrova quindi a dover conciliare i complicati affari, la famiglia che progressivamente va sempre più a sud e tutti i suoi rivali che intendono farlo fuori in un gioco di equilibri estremamente precario che potrebbe però scottargli tanto, tantissimo.

I fratelli Safdie riescono ad infondere nelle scene proposte tutto il pathos generato dalla girandola degli eventi che rendono questo film una piccola perla di una categoria di fare cinema a volte evitata e snobbata. Questo film è la prova che il cinema indipendente, a volte, sa riservare sorprese davvero incredibili.

Il cast brilla all’insegna di Adam Sandler, prolifico e ottimo attore comico che, forse, riesce a regalare l’interpretazione più ispirata e introspettiva di tutta la sua carriera. Grande immedesimazione del classico stereotipo del ricco e avaro imprenditore ebraico che però grazie proprio a Sandler si evolve in un personaggio fatto e finito, profondo e con i suoi problemi. Le altre due “stelle” coinvolte però non hanno niente a che vedere con il mondo del cinema. Il primo, Kevin Garnett, è stato un grande cestista NBA noto per il suo carattere rude ed estremamente acceso, forse è stata una delle scelte più azzeccate per un film di quelle premesse. Alla fine delle cose, Garnett compare per dei piccoli camei ma questo non deve sminuire l’importanza del suo ruolo da perfetto collante per tutto l’ordine delle cose. Il secondo, Abel Tesfaye in arte The Weeknd, ha fatto un piccolo cameo vestendo i panni del suo personaggio di “After Hours”, suo album che sarebbe stato poi rilasciato a marzo 2020, un personaggio che ha vissuto una grande carriera artistica mettendo però da parte sé stesso fondendo una vita sregolata e piena di eccessi compiendo un errore dietro l’altro. Personaggi realistici e grandi interpretazioni rendono questa pellicola un grandissimo pezzo da novanta da recuperare ad ogni costo.

Le musiche, realizzate da Daniel Lopatin in arte Oneohtrix Point Never o OPN se volete, sono realizzate in classico stile elettronico che riescono a fondersi ottimamente con l’ambiente del film. Incalzanti, mai banali e ben realizzate. Piccola chicca nascosta nei titoli di coda “L'amour toujours” del nostro mitico Gigi D’Agostino.

In definitiva, i fratelli Safdie hanno saputo reinventarsi e a regalare emozioni forti e intense al grande pubblico in film che troppo spesso viene snobbato e considerato con sospetto solo per essere un film indipendente e per essere un film con protagonista Adam Sandler. I personaggi, soprattutto, e il grande climax degli eventi narrati rendono questo film una piccola quanto grezza perla, bisogna dirlo, da vedere almeno una volta nella vita.

venerdì 28 ottobre 2022

L’Archibugi e Veronesi ci fanno emozionare, ma non basta!



Recensione redatta da Valerkis

Ve lo dico subito, partirò nel pieno svantaggio. Ora vi dirò il perché. Se devo spendere due parole su Francesca Archibugi, non posso farlo. Gli unici film visti diretti da lei sono: “Il nome del figlio” visto a tratti e a primo impatto l’ho reputato pesante negli argomenti trattati (sarà una recensione futura magari). L’altro film è “Vivere” e non vi dirò niente per una futura recensione assicurata.

Parliamo di un film che sta riempiendo (o meno) il cinema italiano in questo ottobre 2022 ed è stato presentato in occasione dell’apertura del Festival del Cinema di Roma. L’Archibugi torna dopo tre anni dietro la macchina da presa e a sceneggiare insieme a Francesco Piccolo e a Laura Paolucci una storia, che qualcuno magari già conosce, grazie alla vittoria del Premio Strega 2020 da parte dello scrittore del libro omonimo da cui è tratto il film, ovvero Sandro Veronesi. Parto svantaggiato inoltre perché non ho letto il suo libro e sicuramente quello raccontato nel romanzo non è proprio identico alla sceneggiatura adattata da Archibugi, Piccolo e Paolucci. Per questo mi esprimerò solamente per ciò che ho visto.

Il trailer e l’inizio mi hanno trasmesso buone possibilità nel vedere un racconto potente, cioè ricco di emozioni e, perché no, di colpi di scena alternando drammaticità e semplicità nel dirigere questa vicenda. Come è andata invece? Partiamo dal protagonista Marco Carrera (interpretato da Pierfrancesco Favino), un medico che ha vissuto la propria vita tra amori, discussioni e speranze nell’età adolescenziale e pre-adulta per poi trascorrere una vita adulta risultata tormentata e complicata, insomma non come se la immaginava da ragazzo. Tre persone hanno segnato in maniera significativa la sua vita, anzi quattro: Luisa Lattes (interpretata da Bérénice Bejo), Marina Molitor (interpretata da Kasia Smutniak), Adele Carrera (interpretata da Benedetta Porcaroli, nell’età adulta) e quello che per me è stato il mio personaggio preferito in questa storia, Daniele Carradori (interpretato da Nanni Moretti). Questi personaggi sono stati importanti per Marco, in ogni parte della sua vita: in quella sentimentale, in quella prosperosa e in quella difficile. Nel corso della vicenda, Carradori è stata una figura aiutante nella vicenda, soprattutto per il protagonista e il personaggio interpretato dalla Smutniak. Ve lo dico da subito, vedere Nanni Moretti interpretare quella parte, in determinate scene, ho rivisto troppo il personaggio del suo film “La stanza del figlio” (la recensione la porterò sicuramente, promesso e scusatemi l’eventuale “spoiler”, ma tutto questo lo capirà solo chi avrà visto quel meraviglioso film). Bravo Nanni!

Altro da dire? Per quanto riguarda la storia, non vorrei dirvi troppo, giusto che il protagonista è stato coinvolto in tanti eventi e fatti i quali hanno condizionato la sua vita, sentimentalmente e non, anche grazie a quelle persone citate prima risultate significative nel proprio percorso.

Per quanto riguarda il cast, abbiamo a che fare con buona parte degli attori attuali italiani. Tutti magicamente bravi, da Favino il quale è riuscito a interpretare un protagonista inizialmente orgoglioso di vivere e per poi spegnersi lentamente diventando passivo nella realtà che lo circondava; alla Smutniak, splendida nelle sue delusioni e rabbie; alla Bejo, dove in qualche modo si è resa sempre disponibile nel riempire il vuoto di Marco; a Laura Morante (interpretante la mamma di Marco) che ancora a 66 anni riesce a rimanere la stessa di quaranta, se non cinquant’anni fa quando era ancora una giovane e affascinante attrice capace di interpretare ogni tipo di personaggio e per arrivare a rinnovare la mia gratitudine ad un immenso Nanni Moretti, passando successivamente alla Porcaroli, a Sergio Albelli (intepretante il padre di Marco), Alessandro Tedeschi (interpretante il fratello di Marco), Fotinì Peluso (interpretante la sorella di Marco) e ad un inaspettato Massimo Ceccherini (interpretante un amico del periodo giovanile di Marco; vi prego non pregiudicate male su di lui prima di guardare il film. Guardatelo e poi ne riparliamo).

Cosa mi ha trasmesso il riadattamento dell’Archibugi inerente alla storia di Veronesi?

Partiamo da una cosa fondamentale: un evidente buon rapporto con la fotografia firmata da Luca Bigazzi (vincitore del David di Donatello per i film “La Grande Bellezza”, “Pane e Tulipani”, “Le conseguenze dell’amore”, “Romanzo Criminale” e tanti altri…) direi pienamente azzeccata soprattutto per le riprese nella località della spensieratezza e della bella stagione, dove i colori e le luci sono forti e vivi. Sto parlando della località dove è stata girata la storia del protagonista nell’età fertile e pre-adulta. La fotografia delle riprese effettuate nelle città ha fatto assumere quella monotonia nella quale sono stati coinvolti i protagonisti, confermando il buon lavoro firmato Bigazzi. Ma lì, in quel mare, in quella spiaggia…ho percepito quella leggerezza e freschezza, come d’altronde agivano i protagonisti e sembrava svolgersi la vicenda, per poi piovere, oscurarsi e vedere ribaltarsi tutto. Ho notato come l’Archibugi ha giocato molto con il “flash-back” e devo capire e analizzare meglio se questo è stato frequente anche nel romanzo. Ma non credo cambierà il mio pensiero sul film che vi sto recensendo, perché il “flash-back” va usato e gestito non bene, di più e il motivo sta nel fatto di calcolare l’eventuale disattenzione da parte del pubblico perché se si perde un minimo nella comprensione bisognerà premere il pulsante STOP e RESTART. Fidatevi! Il potenziale c’è, perché la storia è bella e sceneggiata anche in maniera abbastanza decente, facendo percepire la drammaticità generale che la vicenda doveva trasmettere assistendo così ad una storia ricca di emozioni in ogni sfaccettatura per arrivare in un momento dove mi colpisce, in particolare, nel vedere un Favino statico e passivo. Lì solo una parola mi è saltata in mente: “tristezza”. Perché prima ho detto “sceneggiata in maniera abbastanza decente”? Perché riflettendo, ho notato qualche buco inaspettato, devo dire anche spiacevole, rendendo il film quasi incomprensibile ma per fortuna è durato molto poco!

Però peccato davvero, ribadendo anche la questione dei “flash-back” che magari potevano essere gestiti meglio, facendo assicurare il mio pieno apprezzamento, ma sarà parziale anche se collocato oltre “il 50%”.

Comunque sia, parliamo di un film eseguito non da una principiante ma da una persona che lavora nel cinema dagli anni ottanta, mostrando così la sua capacità (buona o discreta) nel dirigere ogni minimo particolare. Dove si può notare un eventuale “tocco femminile”? Non posso dirlo, dovrei seguire per un po’ la sua filmografia e ne potremo riparlare. Ma se dovessi proprio rispondere? E dove sarebbe presente in questo film? Forse le emozioni, sono state risaltate parecchio e in questo le donne riescono benevolmente. Sono decisamente più sensibili di noi uomini!

Comunque il gioco del “flash-back” andava gestito meglio ed è stato un vero peccato, perché tutto sommato è un film che merita di essere visto e di percepire ogni singola emozione trasmessa da parte di ogni elemento contribuente alla realizzazione di questo film: attori, sceneggiatori, regista e ovviamente il padre di questa storia, Sandro Veronesi che insieme a Francesca Archibugi hanno lasciato allo spettatore quello che dovevano: emozioni su emozioni.

mercoledì 26 ottobre 2022

TRE UOMINI, DUE SENTENZE, UN TESORO

Recensione redatta da Rickers


Con questo post si chiude una saga iniziata un mese fa. Il film che tratterò in questo post è uno dei film più iconici e leggendari che vi possa venire in mente. Questo post termina la mitica “Trilogia del Dollaro” dell’altrettanto mitico Sergio Leone, regista geniale e innovativo, che vede proprio nel suo ultimo capitolo il suo apice.

“Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo” forse rimane (ancora ad oggi) uno dei più celebri film western della storia del cinema, tanto da essere considerato come la perfetta incarnazione del western nostrano, oltre che uno dei migliori film di sempre. Girata dopo gli insperati (quanto meritati) successi dei due film precedenti (“Per un pugno di dollari” e di seguito “Per qualche dollaro in più”), la pellicola getta le basi per il completamento della fortunata “Trilogia del Dollaro” creata da Sergio Leone. Dopo i successi legati ai primi due film, Leone non aveva alcuna intenzione di continuare il progetto legato alla trilogia. Tuttavia, si convinse ben presto a rivedere la sua decisione dopo aver visto il compenso che gli sarebbe spettato. Leone accettò immediatamente seppure non avesse alcuna idea in cantiere. Il film, alla sua uscita, generò opinioni contrastanti alla critica, ma ciò non impedì alla pellicola di ottenere un enorme successo di pubblico. La sua popolarità perdura inalterata da quel lontano 1966 e ormai si è instaurato autentico classico del cinema. La sua importanza storica è innegabile, talmente tanto da essere d’ispirazione ancora oggi per importantissimi cineasti moderni, primo tra tutti Quentin Tarantino.

La sceneggiatura, curata dallo stesso Leone insieme a Luciano Vincenzoni, fu difficilissima da portare a termine. All’inizio erano presenti il duo Age & Scarpelli (Agenore Incrocci e Furio Scarpelli) e Sergio Donati, ma i tre lasciarono il progetto praticamente agli esordi: i primi furono silurati da Leone dopo aver presentato la prima bozza di una ipotetica trama, il secondo lasciò per incomprensioni con il regista. La trama narra di una guerra quasi “territoriale” compiuta da tre pistoleri dall’oscuro passato, bramosi di impossessarsi di un tesoro nascosto all’interno di un cimitero. In queste poche righe viene rispecchiata l’essenza del pensiero di Leone. Nei tre protagonisti, ognuno per la propria parte autobiografico del regista, convivono bellezza e bruttezza, umanità e ferocia. Il regista prende tutti questi concetti demistificandoli e riuscendo, al contempo, anche a compiere una dichiarata quanto sottile denuncia alla follia bellica e all’avarizia insita nell’essere umano. Leone demistifica di conseguenza la storia degli stessi Stati Uniti d'America, mostrandone il vero lato violento e brutale, sempre oscurato dalla tradizione naturalmente mitizzante dell'epica western. Interessante la scelta di riproporre il "cliché" dell'uomo senza nome, sotto però spoglie ambigue, a metà strada tra quelle di un cacciatore di taglie e quelle di un giustiziere.

Dal punto di vista registico, questo film ha fatto scuola. Scene catturate con grande sapienza, con montaggi serrati e stacchi violenti. Ogni scena incarna alla perfezione una piccola dimensione che trova magicamente il proprio posto all’interno della pellicola. Unica pecca: la parte centrale che smorza il ritmo incalzante del film, che finisce irrimediabilmente per ammazzare lo spettatore per la sua lentezza. Tuttavia, senza quella stessa parte centrale il film perderebbe di senso, perdendo di conseguenza il proprio scorrere. Le scenografie sono realizzate con grande cura. Famosa storia riguarda il cimitero del “triello finale”, set realizzato appositamente per il film.

Il cast si segnala ancora una volta dalla presenza dell’immancabile Clint Eastwood, che in questo film interpreta “il Biondo”, una delle incarnazioni dell’uomo senza nome. Nell’arco di tutta la trilogia, Clint Eastwood ha probabilmente incarnato quello che è, per caratura e importanza, il personaggio maggiormente riuscito di Sergio Leone. Molto importante è la presenza del sigaro, uno dei simboli di questo film: Clint Eastwood ne ha sempre in bocca uno e l'accende ripetutamente. Torna anche Lee Van Cleef, che in questo film interpreta “Sentenza”. Ultimo arrivato è Eli Wallach, che qui interpreta il ruolo di “Tuco”. Tutti e tre gli attori forniscono forse la loro migliore interpretazione. Clint Eastwood irraggiungibile per mimica, impostazione della voce ed iconografia; Lee Van Cleef ottimo antieroe capace di trainare il film anche per un discreto minutaggio, Eli Wallach perfetto nel suo serio ma comico quel tanto che basta da strappare un sorriso ogni tanto.

Nota a margine spetta per il maestro Ennio Morricone, che confeziona senza alcun dubbio il suo lavoro più iconico. Musiche incalzanti, composte e sempre azzeccate, caratterizzate da un incedere deciso e scandito dal metronomo delle scene. In alcuni frangenti le musiche trasmettono una teatralità e un’epicità trasudanti imprese a stelle e strisce. Iconica rimarrà la scena del “triello”. Leggendario, basta solo questa parola.

Arrivati alla fine di questa trilogia, posso affermare quasi come un coro unanime che questi film costituiscono parte integrante della storia del cinema. In particolare questo film mi ha entusiasmato e continua a farlo ogni volta che lo vedo. Il viaggio dell’uomo senza nome leoniano raggiunge il suo apice qui, dopo aver attraversato un climax ascendente che lo ha portato a scontrarsi con bande messicane fin troppo avare, colonelli in cerca di vendetta e pistoleri bramosi di ricchezza. Questo film è (e resterà sempre) una vera e propria pietra miliare della storia del cinema. Tutto di questo è realizzato nei minimi dettagli: la trama, le riprese, il recitato e le scenografie, i costumi, i dialoghi, insomma tutto quanto. Uniche note di stono sono la parte centrale abbastanza lenta e la durata del film, ma questo significa davvero trovare il pelo nell’uovo. “Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo” rappresenta la fine di un viaggio che conclude magnificamente un ciclo narrativo che mai verrà superato a livello di emozioni, climax e splendore epico. Poco ma sicuro.

venerdì 21 ottobre 2022

PER QUALCHE DOLLARO IN PIU'

Recensione redatta da Rickers

A distanza da un mese direi che è giunto il momento di continuare con quello che ho definito come un “fantastico racconto”. A distanza di un mese, riprenderò una delle trilogie cinematografiche più famose della storia del cinema, quella “del Dollaro” di Sergio Leone, lì da dove mi sono fermato.

Sergio Leone è stato un genio innovatore. Su questo nessuno (ma proprio nessuno) potrà negarlo. Con la sua corrente di pensiero e con le sue idee visionarie ha spianato la strada a tante delle mega-produzioni di Hollywood che tanto amiamo. Continuare la storia lì dove si era interrotta, con un pistolero che insieme al suo bottino e al suo fido destriero va alla ricerca di nuove imprese, era praticamente impossibile. Qui scatta la scintilla che accende la lampadina: ricominciare daccapo quella storia. “Per Qualche Dollaro in Più” parte da questo pensiero laterale; creare qualcosa di nuovo a partire da qualcosa di già visto. Sergio Leone, genio e sregolatezza.

Questo film, sulla base della premessa, vede di nuovo un intramontabile Clint Eastwood come protagonista di questa storia. La parabola “dell’Uomo senza Nome” leoniano riprende forma in un giovane cacciatore di taglie alla ricerca di criminali molto remunerativi. L’occhio (e la pistola) del cacciatore di taglie cade sul manifesto di “El Indio”, rinomato e pericoloso criminale interpretato da Gian Maria Volonté, sulla cui testa pende una taglia sufficientemente alta da attirare l’attenzione del giovane. A molti chilometri di distanza, anche il Colonello Mortimer dell’esercito sudista, interpretato da Lee Van Cleef, adocchia la taglia di “El Indio”, anche se per motivi diversi dal vil denaro. Inizierà quindi una forte rivalità tra i due intraprendenti cacciatori di taglie, che li spingeranno ad unire le forze pur di far sparire “El Indio” dalla circolazione.

Trama pulita, niente sbavature e dalla scorrevolezza molto lineare e franca. “Per Qualche Dollaro in Più” ha avuto un enorme successo commerciale al suo rilascio, scalando le classifiche nei botteghini diventando il film più visto nel suo anno di uscita (1965) e più in generale il quinto film italiano più visto di sempre. Il successo strabordante del primo capitolo aveva costretto Leone a inventarsi l’insperato pur di realizzare un seguito, a cui ovviamente partecipò anche Eastwood. Lee Van Cleef fu convinto in ben altra maniera: l’attore raccontò più volte che Leone lo “salvò” da un declino quasi certo. Van Cleef era infatti reduce da film in cui non raggiungeva vivo nemmeno i titoli di coda e per sua stessa ammissione non riusciva nemmeno a pagare la bolletta della luce. “Per Qualche Dollaro in Più” rappresenta la sua rinascita come attore e come interprete dei film western. Lee Van Cleff diverrà un nome da mettere ben stampato a caratteri cubitali nei titoli di testa. Gian Maria Volonté venne anche lui richiamato per il progetto e l’attore accettò di buon grado l’invito, interpretando lo spietato “El Indio”.

Tutti e tre gli attori forniscono una prova stellare del loro talento e bravura. Eastwood spicca su tutti, dietro al suo lavoro vi è un grande studio del personaggio e la grande mimica dell’attore in alcune scene è più eloquente di mille parole. Lee Van Cleef offre una bella interpretazione del vecchio cacciatore di taglie attanagliato dai nefasti eventi della vita e il suo è un ruolo composto ed educato. Alla base di questo film si volle creare un senso di contrasto, generato da Clint, più giovane e inesperto, e da Van Cleef, più esperto e calcolatore. Devo dire che hanno centrato in pieno l’obiettivo. Gian Maria Volonté si dimostra di nuovo l’attore giusto da chiamare quando non si ha un antagonista in questo genere di film. Già la sua faccia era tutto un programma, la sua caratterizzazione era incredibile, quasi romanzesca. I tre si amalgamo molto bene tra loro e l’intreccio che ne viene fuori è qualcosa di difficilmente sbrogliabile.

A confezionare ancora le musiche ci pensa il maestro Morricone, diventato ormai un marchio di garanzia, neanche avesse il bollino “DOP” stampato sopra. Le sue musiche abbondano di una grande varietà di strumenti: a partire dalla solita e classica orchestra per finire al sapiente utilizzo dello scaccia-pensieri sardo, strumento molto insolito per un film western.

In conclusione, la trama ben realizzata, l’ottimo recitato e le musiche incalzanti rendono questo film un'altra pietra miliare del genere western. Non solo a distanza di più di cinquant’anni questa pellicola rimane attuale e intoccabile, ma forse arricchisce ancora di più l’importanza storica e culturale di quest’opera. Questo film fu una conferma per Sergio Leone. “Per un Pugno di Dollari” aveva avuto un successo insperato, quasi non voluto. Secondo il mio parere “Per un Pugno di Dollari” rimane ancora un gradino sopra questa pellicola, tuttavia ciò non deve sminuire questo film. Vedere per credere.

mercoledì 19 ottobre 2022

Verso l'infinito (e oltre)



Recensione redatta da Valerkis

Ci siamo, nelle sale cinematografiche italiane (e credo anche mondiali) è tornato un film Pixar dopo due anni di pandemia. Il film in questione è considerato lo spin-off della saga di “Toy Story”. Parliamoci chiaro, chi può mai essere il personaggio che ha reso particolare quella saga e il bambino protagonista? Si, sto parlando di lui, del Comandante Buzz Lightyear.

Il nostro Buzz, in questa vicenda, perde il pelo ma non il vizio e cambia completamente aspetto facendo notare così l'evidente evoluzione della CGI (grafica computerizzata in 3D) che c’è stata tra il 1995 (anno di produzione del primo Toy Story) e il 2022 (anno di produzione  del film in oggetto). Non perde minimamente le sue abitudini e battute tipiche di un personaggio che mi ha fatto ritornare bambino e a un passato ormai lontano, segnando un'epoca e varie generazioni.

In questa storia, Buzz non è solo e avrà un’aiutante imponente, Alisha Hawthorne, un personaggio che crede nello spirito dello “Space Ranger” e collabora in maniera efficiente con il Comandante protagonista. Nella vicenda il trascorrere del tempo é dominante e Buzz continua a non mollare perché vuole migliorarsi raggiungendo la perfezione e l'ipervelocitá. Ma nel frattempo gli anni passano, cambiano le ambientazioni e cambiano le persone. Un altro personaggio che gli farà compagnia è il gatto-robot Sox, un personaggio tecnologico, geniale, disponibile e simpatico, aggiungerei anche grazioso. Il nostro protagonista non ce la fa a stare fermo, vuole portare a termine nella maniera più efficiente il suo compito e quando l’avventura si prolunga, avrà bisogno di persone che lo accompagneranno in una nuova avventura. Sono personaggi l’uno diverso dall’altro, ma con delle abilità per nulla scontate, facendo emergere l'animo dello "Space Ranger".

Il film, oltre a mostrare un’evoluzione nell’animazione computerizzata da parte della Pixar, racconta una storia dove l’azione e l’avventura si mescolano perfettamente rendendo lo scorrere degli eventi per nulla pesante e adatto a qualsiasi tipo di spettatore di ogni età. La Pixar, comunque, non smette mai di evolversi nel suo lavoro. L’icona di Alisha Hawthorne è fondamentale per i messaggi con i quali aziende multinazionali come la Pixar e la Disney hanno bisogno di tramandare alle future generazioni, in questo caso affrontando la tematica della diversità di genere. Non nascondo di aver ritrovato dei riferimenti alla saga da dove proviene il nostro protagonista e a un altro capolavoro di casa Pixar, “Wall-E” (osservate attentamente i robot e le ambientazioni e magari parleremo anche di questo personaggio).

Angus MacLane è riuscito a mostrare la storia di Buzz in maniera non entusiasmante ma apprezzabile, sicuramente, sia nel lavoro da regista sia nel lavoro da sceneggiatore insieme a Jason Headley. Sicuramente molti aspettavano da quasi trent’anni questo momento ed è notevole come, tutto sommato, MacLane si è mostrato al pubblico con questo film per nulla impreparato, considerando che non si é trovato alla sua prima esperienza dietro la macchina da presa. Posso confermare quindi una regia in grado di farci piacere ancora di più il personaggio di Buzz e  riuscendo così ad andare in luoghi spaziali e vasti, insomma verso l’infinito e oltre!

giovedì 13 ottobre 2022

Il primo film (non d’animazione) visto nella mia vita



Recensione redatta da Valerkis

Vorrei iniziare con una premessa: la recensione di questo film è dedicata ad un conoscente di famiglia molto caro (di cui non farò il nome per motivi di privacy) che purtroppo qualche mese fa è volata in cielo e lo ringrazierò sempre per la simpatia dimostrata nei miei confronti e dei regali fatti durante la mia infanzia. Per farmi trascorrere il tempo libero, mi regalava dei film d’animazione e non, i quali possiedo ancora e una volta mi ha prestato persino questo film scritto, diretto e interpretato da Leonardo Pieraccioni. Spero che lassú possa arrivargli questa recensione.

Toscana, tempi odierni all’anno di produzione: la vita di paese è veramente semplice, soprattutto nella cerchia di persone e amici che si conoscono. L’inizio è veramente buffo, dove Rocco Papaleo e Chiara Francini stanno interpretando i due protagonisti di “Grease” per preparare una rivisitazione villana del musical più conosciuto in tutto il mondo e tra le varie generazioni. È la cerchia di amici protagonista ad occuparsi della messa in scena, tra cui c’è Mariano Stoppani (interpretato da Leonardo Pieraccioni). Mariano è un ortolano che possiede un banco al mercato insieme a sua moglie Miranda (interpretata da Laura Torrisi). Qui, come in tutti i film di Pieraccioni, il “dialetto toscano” prevale nei dialoghi, cosa che sottolineo positivamente sentendosi maggiormente a casa loro, dove possiamo trovare un territorio cordiale, accogliente e bello, nelle persone e nelle città e paesaggi. La vita dei due cambia quando Miranda incontra Andrea (interpretato da Gabriel Garko) in visita al paese e propone alla protagonista di fare, a tutti gli effetti, una proposta indecente.

Pieraccioni, insieme a Giovanni Veronesi, scrivono una sceneggiatura in qualche modo discreta, nulla di eccezionale, in riferimento alla vicenda da raccontare e in quella che vorrei denominare “Visione Pieraccioniana”. Ah, interessante e come la spieghi questa tua affermazione? Con tre parole: la prima è, toscanità; la seconda è, vicenda amorosa o simile e terza è, riflessione correlata. La riflessione adottata in questo film è risultata nel complesso genuina all’interno del racconto e nelle conseguenze dei protagonisti. Vorrei sottolineare quanto sia stato importante vedere nei contenuti speciali alcune scene tagliate, meglio chiamate “scene eliminate”. Non credo sia stato proprio l’ideale tagliare alcune scene, perché ha reso il film un po’ elementare nei dettagli e sicuramente con il mantenimento nel montaggio delle scene eliminate, la storia poteva essere più approfondita. Vorrei sottolineare il personaggio misterioso di Don Pierino (interpretato da Tony Sperandeo) e lo reputo da buon contorno alla vicenda, comprensivo nei confronti di Mariano in determinate situazioni.

Il personaggio di Garko non mi ha colpito notevolmente, ma il suo fascino ha reso il personaggio interpretato nel complesso discreto e infatti la sua, per il mio parere, è stata un’interpretazione naturale. Imponente è stata anche la comparsa di Carlo Conti. E Panariello? A casa? Mettici pure lui a sto punto e si riunisce così il “Trio Toscano” più famoso d’Italia.

Questo film l’ho rivisto dopo anni e ho ritrovato quella leggerezza onnipresente nei film di Pieraccioni, dove la comicità toscana predomina e nonostante sia scontata la riflessione tramandata agli spettatori in quelli che costituiscono i rapporti amorosi. Ma sicuramente è stata messa in scena una riflessione discutibile, in base ai vari punti di vista. 

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